Nel recente romanzo China Coup. The great leap to freedom, l’ex diplomatico britannico Roger Garside descrive un colpo di stato interno al Partito comunista cinese in cui l’establishment del partito, preoccupato per la direzione sempre più autoritaria dnlla gestione del potere, rimuove Xi Jinping dal suo incarico. Una lettura ricca di spunti di riflessione, ma che nei giorni in cui il sesto Plenum del Comitato centrale del Partito comunista ha consegnato a Xi la guida assoluta del paese, può sembrare il frutto di una fantasia troppo accesa.



In realtà, sono tanti i fattori di instabilità che rendono la celebrazione di Xi meno trionfante di quello che appare, mentre il suo terzo mandato, che punta a raggiungere un’era di “prosperità comune”, dovrà affrontare importanti riforme fiscali, che di certo non saranno indolori per la società cinese. Sono previste tasse sugli immobili, sulle plusvalenze finanziarie e sui beni di lusso, misure che sono giustificate dal desiderio di rendere più equa la crescita economica e ridistribuire la ricchezza a fasce più ampie della popolazione, ma che di fatto palesano la piena consapevolezza da parte della leadership del rallentamento dell’economia cinese, poiché vanno a impattare quel settore della popolazione che con i suoi consumi ha trainato la crescita. In definitiva, toccherebbe al ceto medio, che da poco ha raggiunto livelli di benessere, pagare gli azzardi dell’espansione finanziaria di cui il caso Evergrande sembra essere il più eclatante.



Xi Jinping, che ormai è l’uomo più potente in Cina dai tempi di Mao Zedong, dovrà usare tutta la sua autorità per spiegare alla classe media cinese, che sembrava sul punto di raggiungere il suo agognato Eldorado, che l’instabilità e l’incertezza del futuro richiedono decisioni difficili. Come lo saranno, ad esempio, la riforma pensionistica prevista per il 2022 che, a rendere tutto più complicato, deve fare i conti con una popolazione sempre più vecchia.

La lotta alla diseguaglianza adottata da Xi ha una giustificazione più politica che ideologica e fa i conti con una realtà in cui il coefficiente Gini è rimasto stabile dal 2016 e il reddito pro capite della popolazione delle città è stato nel 2020 circa 2,6 volte più grande rispetto a quello delle aree rurali – che segna un netto miglioramento rispetto ai livelli del 2012, ma ancora lontano da quelli auspicati – , mentre il Prodotto interno lordo per il terzo trimestre è cresciuto rispetto all’anno precedente solo del 4,9%, in calo rispetto al +7,9% del secondo trimestre.



Instabilità finanziaria e geopolitica, la questione di Taiwan, il rallentamento della crescita e della domanda interna – che rendono sempre più attuale il rischio della trappola del reddito medio, di cui parlammo già nel 2018 – e il problema del debito privato trovano nel rafforzamento del potere apicale la risposta più immediata, ma che, rappresentando un’eccezione per la storia cinese, potrebbe mettere alla prova i delicati equilibri di potere del Partito comunista e della società cinese.

Mentre con una “risoluzione storica” si glorificava la figura di Xi, dietro le quinte  del Comitato permanente del Politburo si sono registrati una serie di movimenti  riguardanti la figura del suo successore che fanno pensare che la presa del leader sul partito non sia così ferrea come si immagina. Nikkei Asia ha parlato di una serie di avvicendamenti che potrebbero riguardare il premier cinese Li Keqiang, il cui mandato dovrebbe finire nel marzo 2023. Inoltre, sembrerebbe che Xi stia ostacolando l’ascesa di Hu Chunhua, uno dei quattro vicepremier in carica. Non a caso Hu, come Li, proviene dalla Lega della Gioventù comunista, una fazione ritenuta non allineata alla politica del leader attuale.

Se decifrare i sommovimenti interni al Partito comunista può risultare un’impresa ardua, è invece evidente il tentativo di Xi di rompere definitivamente con l’eredità di Deng Xiaoping e quindi con la stagione di riforme economiche, apertura verso la società e multilateralismo in politica estera.

Roger Garside con il suo romanzo molto probabilmente ha descritto uno scenario improbabile, ma le due questioni che ha posto rimangono sul tavolo: le conseguenze del decoupling con l’economia americana e l’interruzione delle riforme democratiche.

Non è ancora del tutto evidente il modo in cui l’economia e la società cinesi hanno reagito al decoupling con gli Usa e la brusca riduzione dell’integrazione economica, finanziaria e commerciale con l’Occidente rappresenta un problema di difficile gestione. Dal 1992 più di 200 aziende cinesi sono state quotate a Wall Street, ma come fa osservare il diplomatico britannico il massivo delisting voluto dall’amministrazione Biden ha innescato una serie di conseguenze che hanno nella crisi finanziaria in atto uno dei suoi aspetti più evidenti.

Inoltre, la questione di un progresso economico a cui non risponde una reale e progressiva democratizzazione della società non può essere liquidata molto facilmente, soprattutto in un momento in cui la crescita economica rallenta.

In definitiva, la presidenza Xi, per quanto autorevole e autoritaria, non sembra poter scongiurare con certezza il rischio di instabilità. E se ha ragione chi ha definito l’attuale presidenza come l’inverarsi di una complessa transizione della Cina verso il compiuto sviluppo civile ed economico, c’è da chiedersi quanto lunga e difficile essa possa ancora essere.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI