La previsione del Japan Center for Economic Research, che ha rimandato al 2033 il sorpasso, previsto in precedenza per il biennio 2028/2029, del Prodotto interno lordo cinese nei confronti di quello americano, si aggiunge al crescente scetticismo nei confronti delle capacità dell’economia della Cina di superare questa fase di incertezza.



L’istituto di ricerca giapponese ascrive questo cambiamento di scenario alle conseguenze del processo di decarbonizzazione, alla crisi del debito e alla recrudescenza della pandemia. Uno scenario che ha nella contrazione della domanda interna il dato più eclatante e di fatto segna il rallentamento del modello di sviluppo cinese che segue la complessiva riconfigurazione della società in base alle direttive di Xi Jinping. La repressione finanziaria e le norme più rigide che puntano a limitare il sovrainvestimento nel settore finanziario sono solo l’aspetto più eclatante di una complessiva strategia che vuole ridurre il peso del settore privato e dei monopoli del Fintech e Big Tech. anche a costo di accentuare il rallentamento della crescita economica.



Non a caso iniziano a trapelare voci circa un possibile abbassamento dell’obiettivo di crescita per il 2022, ovvero tra il 4,9% e il 5,5%, che sarebbe il tasso di crescita più basso dal 1990, l’anno in cui si registrarono le sanzioni internazionali in risposta ai fatti di piazza Tienanmen del 1989. Una prospettiva non rosea che condizionerà le strategie cinesi, anche se in vista del prossimo congresso nazionale del Pcc in cui Xi otterrà il terzo mandato consecutivo come segretario generale, difficilmente le statistiche restituiranno l’immagine di un paese senza un tasso di crescita elevato e con dati allarmanti per quanto riguarda l’occupazione. Un quadro in cui coesistono in modo contraddittorio forme di severa regolamentazione e il trend che vede la banca centrale ancora impegnata nel 2022 a stimolare la crescita attraverso il ricorso sistematico a tagli dei tassi per stimolare l’economia, scommettendo al contempo, in modo decisamente ottimistico, sulla stabilità del sistema dei prezzi.



Il recente Central Economic Work Conference, l’incontro annuale convocato dal Comitato centrale del Partito comunista in cui viene definita l’agenda economica nazionale, ha confermato la necessità di dare un ulteriore impulso alla domanda interna. Al momento non sono note le modalità con cui verrà sostenuta la domanda interna, ma è possibile immaginare che verrà favorito l’aumento degli investimenti del settore privato attraverso nuovi tagli fiscali e aiuti di diversa natura alle imprese strategiche che hanno dovuto fare i conti con l’aumento dei prezzi delle materie prime.

In definitiva, seppure in un contesto di crescente incertezza e di riduzione delle aspettative di crescita, il governo cinese sembra intenzionato a difendere in ogni modo la crescita dell’economia e la domanda interna anche a costo di giocare con il fuoco dell’inflazione. Sono in molti a scommettere sulle capacità di Xi di utilizzare in modo virtuoso gli strumenti illimitati di intervento di cui dispone, ma sul tavolo rimangono criticità che non fanno diradare le nubi fosche che aleggiano sul 2022 dell’economia cinese.

Come ha fatto recentemente notare Thomas J. Duesterberg sul Wall Street Journal,  la presa del partito comunista sulla società cinese e la crescente competizione geopolitica con gli Usa hanno danneggiato le imprese ad alta intensità innovativa. Le industrie biofarmaceutiche e quelle dell’aviazione commerciale sono ancora molto lontane dai grandi player occidentali, mentre la stretta operata dagli Usa sui semiconduttori ha fortemente limitato le velleità cinesi di poter raggiungere l’autonomia tecnologica e la leadership nelle tecnologie che hanno un ruolo strategico nella competizione globale. Il vantaggio accumulato nei settori delle batterie, dell’acciaio e delle ferrovie ad alta velocità potrebbe essere intaccato da un ulteriore inasprimento delle guerre commerciali.

Inoltre, la portata della crisi del settore immobiliare è tale che può realmente compromettere il futuro dell’economia cinese, in modo non dissimile dalla crisi dei mutui subprime: il settore immobiliare, oltre ad alimentare il sogno della nascente classe media cinese di avere una casa di proprietà nei principali centri urbani, ha trainato una crescita sovradimensionata, contribuendo a mantenerla annualmente sopra il 6%, mentre fra il 2014 e il 2018 il debito è cresciuto del 20% l’anno. Una dinamica che ha permesso al real estate di arrivare a valere circa il 30% dell’economia cinese, ovvero il doppio del livello che aveva il suo corrispettivo americano prima della crisi finanziaria del 2007-2008.

A fronte di questi dati, l’enfasi posta dal governo cinese sulla ricerca della stabilità in realtà fa emergere il timore che la crescente instabilità del sistema finanziario e la competizione geo-economica possano rappresentare sfide di difficile soluzione. Anche per questo motivo al momento le preoccupazioni del governo cinese sembrano essere più rivolte alla lotta alla disoccupazione e alle diseguaglianze che alla crescita del Pil.

Al metto delle giustificazioni ideologiche alla lotta alla “crescita disordinata del capitalismo” di cui parla Xi, ciò che sembra preoccupare il governo è lo sforzo di rendere il rallentamento dell’economia il meno doloroso possibile per la società cinese.

A venti anni dall’ingresso nella Wto per la Cina sembra essere giunto il momento di fare i conti con l’apertura ai mercati internazionali. Dopo essersi giovato della fase di espansione che ha seguito il 2001, il gigante asiatico in questo frangente risulta essere la vittima di un processo che egli stesso ha innescato, trovandosi in questo momento a giocare un doppio ruolo in commedia, ovvero quello di vittima e carnefice della globalizzazione.

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