Dal 1949 Cina e Africa intrattengono rapporti cosiddetti privilegiati. Il Regno di Mezzo vede l’Africa come il continente in cui ha consolidato la sua diplomazia pubblica, grazie – tutto considerato – a una storia comune e a una lotta condivisa contro l’imperialismo occidentale e l’affermazione della piena sovranità e autodeterminazione. Se i funzionari cinesi e africani sono orgogliosi di avere somiglianze, si considerano anche “popoli fratelli” che hanno pagato il prezzo del colonialismo europeo.
L’Africa è al centro dell’attenzione della Cina e delle sue ambizioni di potere, che sono scientifiche, economiche, politiche, culturali e anche filosofiche. Nel 2019, le transazioni commerciali tra Cina e Africa sono ammontate a 208,7 miliardi di dollari. Lo stock di investimenti diretti cinesi in Africa ha raggiunto i 49,1 miliardi di dollari. Rispettivamente 20 volte e 100 volte più importante di 20 anni fa. Se ci riflettiamo gli investimenti cinesi sono ovunque: costruzione dell’African Union Conference Centre, la linea ferroviaria Mombasa-Nairobi, il ponte Maputo-Catembe, decine di zone di cooperazione economica e commerciale, parchi industriali.
La Cina si è concentrata anche sull’organizzazione di forum, per concretizzare la sua proiezione di potenza i più noti dei quali sono: China-Africa Forum of Think Tanks, Sino-African Peoples Forum, China-Africa Press Center e China-Africa youth. Questi eventi si stanno sviluppando rapidamente. I loro effetti iniziano già a farsi sentire, soprattutto nei discorsi e negli opinion leader, come giornalisti e media africani. Dal 2000, la Cina ha fornito circa 120mila borse di studio governative ai paesi africani e contemporaneamente ha istituito 61 istituti Confucio e 44 classi Confucio in 46 paesi africani.
Uno dei chiari successi del soft power cinese in Africa deriva dal fatto che le comunicazioni delle autorità cinesi ai popoli e ai leader africani sono calibrate. La Cina proietta l’immagine di un Paese gemello, con cui costruire “una comunità di un futuro condiviso”, “una comunità sanitaria” e “una comunità di sviluppo”. Perché come ha detto Wang Yi, consigliere di Stato e ministro cinese degli Esteri, al ricevimento per commemorare il 20esimo anniversario del Forum sulla Cooperazione sino-africana, il 12 novembre 2020 in videoconferenza: “Nella grande famiglia sino-africana, gli africani sono fratelli che si rispettano e si trattano su un piano di parità”.
La nozione di “fratelli”, “famiglia” e l’approccio egualitario sostenuto dalla Cina in Africa stanno ricevendo echi favorevoli. Questo, in un momento in cui gli attivisti della società civile africana e persino i leader politici sono determinati a non ascoltare più discorsi e posizioni dei paesi occidentali, che non esitano a chiamare paternalistici.
Fino a poco tempo fa la Cina aveva intrapreso una guerra di comunicazione in Africa, ma probabilmente l’approccio dottrinale si è evoluto e ora sta conducendo una guerra di influenza che è qualcosa di molto sottile e inosservato ma altrettanto efficace, come hanno ampiamente dimostrato gli studi della Scuola di guerra economica di Parigi.
La strategia cinese del soft power, pianificata dal Partito comunista, diffusa soprattutto dagli istituti Confucio, nasconde un’immensa rete organizzata. Questa strategia crea un precedente e si applica in particolare ad alcuni paesi africani tra cui Gibuti – che è al centro di una guerra di influenza tra le grandi potenze (una guerra su cui lo stato di Gibuti ha un controllo molto scarso) a causa dello Stretto di Bab el Mandeb, centro di rivalità geopolitiche e geostrategiche.
Gibuti è un piccolo paese (per area: 23.200 km2) con una popolazione di 1,048 milioni di abitanti, ubicato tra Eritrea, Etiopia e Somalia. Ha un lungomare lungo 370 km che si affaccia sul Mar Rosso e poi sul Golfo di Aden a 150 km. Quasi il 98% della popolazione gibutiana è di fede musulmana del ramo sunnita. Secondo il World Human Development Report 2018, Gibuti è classificato 172esimo su 189 paesi, con un indice di sviluppo umano di 0,48.
Gibuti è stata sotto il protettorato francese fino all’8 maggio 1977, quando la grande maggioranza della popolazione ha votato per l’indipendenza a seguito di un referendum. Questo territorio ottenne l’indipendenza il 27 giugno 1977 e divenne la Repubblica di Gibuti. Il paese è stato quindi governato con il pugno di ferro da Hassan Gouled Aptidon che fondò un partito-stato durato fino al 1991, anno in cui una ribellione armata ha scosso il nord del paese. Un anno dopo, il vento del multipartitismo ha soffiato a Gibuti. Ma solo in apparenza. Le elezioni del 1999 saranno vinte da Ismail Omar Guelleh che è il nipote dell’ex presidente Hassan Gouled. La conservazione al potere del presidente Ismail Omar Guelleh, 73 anni e in carica per 21 anni, non è casuale.
La Cina continua a guadagnare terreno a Gibuti (indebitato per il 60% del suo Pil secondo le autorità di Gibuti e per il 112% secondo il Fmi e la Banca mondiale). Il Dragone investe nel Paese a condizioni discutibili: pensiamo al finanziamento al 70% da parte della China Exim Bank del Gibuti per la Ferrovia elettrica di Addis Abeba (la prima del suo genere in Africa) per 3,4 miliardi di dollari – rimborsabili in 25 anni – a quello della Export-Import Bank of China per l’oleodotto Etiopia-Gibuti con 327 milioni di dollari. Tuttavia, ci si può chiedere come un paese, senza risorse significative (con meno di 1000 chilometri quadrati di terreno coltivabile, o 0,04% della superficie totale del paese e precipitazioni medie di 130 millimetri all’anno) e con un Pil di 2 miliardi di dollari possa avere investimenti così considerevoli. Sorge quindi spontanea la domanda: perché la Cina, conoscendo perfettamente la vulnerabilità del Paese, continua a indebitarlo?
In effetti, le aziende cinesi stanno partecipando a progetti redditizi a Gibuti, in particolare nel settore portuale ma anche nel settore delle telecomunicazioni: infatti il corpo della guardia repubblicana comandata dal colonnello Mohamed Djama Doualeh, cugino stretto di Ismail Omar Guelleh, usa apparecchiature per le telecomunicazioni di marchi cinesi come Huawei e Techno.
Secondo le informazioni pervenute da alti ufficiali della gendarmeria nazionale e della polizia, nella nuova estensione del palazzo presidenziale di Gibuti è presente una stanza dotata di attrezzature spia cinesi che permettono di trasmettere alla base militare cinese di Doraleh tutti gli scambi di informazioni durante gli incontri con i funzionari occidentali e il presidente della Repubblica di Gibuti dall’altra parte.
Nel 2019, durante una visita a Pechino, il presidente Omar ha condiviso con il suo omologo cinese Xi Jinping le sue preoccupazioni per le pressioni dei paesi occidentali, in questo caso gli Stati Uniti. Per il presidente di Gibuti, gli americani sono gelosi della Cina, in particolare a causa dell’istituzione – posta in essere nel 2017 – della base militare cinese nel suo paese. In tal modo, ha approfittato della visita per chiedere protezione alla Cina. La Cina ha contemporaneamente accolto la richiesta di protezione del presidente Omar e il rafforzamento della capacità militare dell’esercito di Gibuti.
Gibuti è uno dei tre Paesi africani (con Congo Brazzaville e Zambia) di cui la Cina è il principale creditore: ne detiene circa 70% del debito estero. È quindi un segreto di Pulcinella che la Cina influenza la politica economica di Gibuti. Allo stesso modo dire che la longevità al potere di Ismail Omar Guelleh è garantita dalla Cina è un eufemismo.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.