La visita diplomatica di inizio dicembre che ha portato Xi Jinping a Riad rappresenta il punto di arrivo del lungo processo di avvicinamento fra Cina e Arabia Saudita, che ha nel meeting dell’Oman nel 1985 la sua prima tappa ufficiale. I 34 accordi, per un valore di 30 miliardi di dollari, sanciscono quello che è ormai di fatto un partenariato strategico che lega in modo dissolubile i due Paesi.



La Cina è il principale partner commerciale dell’Arabia Saudita che, al contempo, rappresenta il più grande fornitore di petrolio per Pechino. In un prossimo futuro non è escluso che l’Arabia Saudita entri a far parte del club dei Paesi Brics, mentre è da tempo dialogue partner della Shanghai Cooperation Organization (Sco) a dimostrazione che il rapporto esclusivo e privilegiato con gli Stati Uniti è un ricordo del passato.



Molti analisti fanno osservare che l’Arabia Saudita ha bisogno della presenza americana nell’area per assicurare la stabilità e la sicurezza, ma la Guerra in Ucraina, la svolta green e la transizione energetica hanno allontanato in modo irreversibile i Paesi occidentali dai produttori di idrocarburi, un processo che inesorabilmente investirà anche il Medio oriente.

Inoltre, la vicinanza fra Cina e Arabia Saudita si misura anche nel modo di gestire la questione dei diritti civili e il dissenso interno. Un rapporto fra due leadership con tendenze autocratiche, senza vincoli su quelle che per gli occidentali sono questioni dirimenti e che non prevede alcuna forma di ingerenza reciproca. Per una strana ironia l’incontro di Xi Jinping con Mohammed bin Salman è stato seguito da una serie di aperture sul fronte della gestione della pandemia.



Aver liquidato la politica zero-Covid ha portato in poco tempo a una diffusione rapidissima del virus, mettendo a dura prova gli ospedali che secondo molti osservatori sarebbero già allo stremo. Non è possibile avere dati ufficiali sull’andamento della pandemia in Cina, ma chi ha raccolto informazioni sul campo parla di contagi che superano il 50% nell’area metropolitana di Pechino, con picchi del 70% nelle zone più critiche.

Verrebbe da chiedersi il perché di questo repentino cambio di strategia, che sconfessa quanto fatto fino a questo momento. Risulta difficile trovare una risposta a una decisone che sembra una concessione alle proteste del “libro bianco” che denunciavano le misure orwelliane con cui il governo cinese ha provato a contenere la pandemia. Proteste che idealmente si ricollegavano a quelle che si sono registrate un anno fa ad Hong Kong contro la severissima legge sulla sicurezza che poneva forti limiti alle consolidate libertà della società hongkonghese.

Il fatto che la strategia zero-Covid sia stata liquidata così velocemente segna una crepa in quella che a molti è sembrata una strategia di stampo nordcoreano. Sono bastate le immagini dei mondiali del Qatar con ovunque un pubblico festante e senza mascherine per alimentare le proteste contro la gestione della pandemia mostrando i limiti dell’anacronistica tendenza del governo di Pechino a isolarsi dal resto del mondo.

In definitiva, Xi non ha addomesticato la connaturata propensione della società cinese a far sentire, anche violentemente se necessario, la propria voce. Le proteste del “libro bianco” hanno ricordato a molti osservatori le proteste del 1989, evocando il rischio di una Tienanmen nelle più importanti piazze del Paese. Al momento è ancora presto per capire quale esito avranno queste proteste, che però sembrano inverare la profezia sul governo cinese fatta su Project Syndicate da George Soros, il quale immaginava il governo di Pechino messo in ginocchio dalla crisi economica, il diffondersi della pandemia e dal malcontento interno. Uno scenario che più modestamente avevamo tratteggiato anche noi e prima del filantropo ungherese.

Non è da escludere un ritorno alle politiche precedenti e un ulteriore giro di vite alle libertà dei cittadini cinesi, che verrebbe giustificato dal fatto che la crisi sanitaria non permette di essere indulgenti, ma per la prima volta Xi Jinping si è trovato a fare i conti con una contro-narrazione interna che ha palesato tutti i limiti del suo governo isolazionista e autocratico.

Separare la politica estera di una nazione dalle sue questioni interne è spesso un grave errore e lo è anche nel caso cinese. L’assertività in politica estera e l’aumento della propria sfera di influenza sono l’altra faccia della medaglia di un Paese che deve affrontare le sfide più grandi all’interno dei propri confini nazionali. Uno scenario in cui i successi all’esterno sono la cura per le criticità domestiche. Ma per quanto sarà grande e decisa ogni protesta contro il governo cinese, essa avrà difficoltà ad affermarsi se verrà ignorata dai Paesi occidentali e dalle loro opinioni pubbliche. A riguardo, i casi di piazza Tienanmen e quello più recente di Hong Kong rappresentano due tristi precedenti.

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