A che punto è la corsa per la presidenza di Confindustria, a quasi un mese dal voto del Consiglio generale del 26 marzo, quando i 179 votanti del cosiddetto “parlamentino” di viale dell’Astronomia sceglieranno il successore di Vincenzo Boccia? In estrema sintesi, la situazione è questa: Carlo Bonomi è in vantaggio con poco meno di una settantina di voti, seguito da Giuseppe Pasini con circa 45 e da Licia Mattioli con poco meno di 30. Restano, rispetto al totale dei votanti, una trentina di indecisi. Indecisi tra Pasini e Mattioli, visto che Bonomi ha già rastrellato il rastrellabile essendo in campagna elettorale da tre anni a questa parte.



Sono queste le posizioni vere oggi, mentre la convergenza della comunicazione del primo e della terza tende ad accreditare invece la torinese, attuale vicepresidente di Boccia, come seconda. Ovviamente, a Bonomi fa gioco dire che ha già vinto per far partire la tradizionale corsa sul carro del probabile vincitore e tenere a distanza il concorrente più pericoloso, cioè Pasini; lei asseconda (è il caso di dire) tale lettura perché ritiene che sia utile per far credere che abbia più grip di quello effettivo.



Sempre seguendo la logica dei numeri, appare chiaro che se il secondo e la terza si uniscono salgono immediatamente allo stesso livello di consensi del primo pro tempore e, avendo più indecisi nel loro perimetro elettorale, possono facilmente portarsi in testa. Allora perché non è ancora successo e, almeno a breve, non succederà? Le interpretazioni che corrono tra gli imprenditori che seguono più da vicino la competizione sono essenzialmente due: Bonomi e Mattioli (che si sono incontrati a lungo qualche settimana fa alla presenza di Gianfelice Rocca, principale sponsor del presidente di Assolombarda) hanno già un accordo in base al quale lei all’ultimo momento cercherà di pilotare i suoi voti a lui, ma intanto resta in gara fine alla fine per cercare di mettere fuori gioco Pasini, il vero competitor. Oppure, seconda interpretazione: Licia Mattioli, sostenuta dal suo legittimo ego, crede davvero di potercela fare. Anche in questo caso, tuttavia, mantenendo la frammentazione non fa altro che il gioco di Bonomi, e per di più gratis.



Fatta l’analisi quantitativa, è opportuno porre l’attenzione anche su quella “qualitativa”. Con Bonomi sono la gran parte dei cosiddetti “professionisti di Confindustria”, come li chiamava l’avvocato Agnelli: gli immarcescibili Abete e Marcegaglia, Aurelio Regina, i piccolissimi imprenditori siciliani e napoletani e taluni presidenti di territoriali a cui è stata promessa una vicepresidenza e che a loro volta hanno promesso il proprio posto attuale a qualche altro bonomiano dell’ultima ora. Raccontano i bene informati che Bonomi ha un libro con tutte le poltrone del sistema, comprese quelle sulle quali incide Assolombarda a Milano (dalla locale Camera di commercio ad Arexpo), qualcuna delle quali ha appaltato persino ai calabresi in cambio del loro voto. Uno schieramento che di innovazione non ha nulla, anche se il loro candidato promette discontinuità a tutto spiano, a cominciare dalla struttura di viale dell’Astronomia.

Giuseppe Pasini conta sul sostegno di chi vorrebbe un imprenditore con un’azienda dal fatturato importante a capo di Confindustria, per evidenti motivi di reale indipendenza dalla politica e per la conoscenza più approfondita dei meccanismi produttivi e sindacali rispetto a chi, come Bonomi, ha un’azienda microscopica e a chi, come Mattioli, ha un’azienda orafa più grande di quella del candidato milanese ma certo più vicina al commercio che all’industria. Il punto debole è che non tutti i medio-grandi imprenditori per i quali il capo di Feralpi è il candidato ideale poi si mettono in gioco per garantirgli i voti necessari, in una parola non sempre fanno come Fabrizio Di Amato che in casa Assolombarda ha contestato duramente Bonomi per aver impegnato il pacchetto dei voti assembleari della territoriale a proprio sostegno senza aver chiesto il parere degli organi deliberanti. I piccoli imprenditori più avveduti sanno bene invece che ritrovare la presenza dei grandi in Confindustria è importante per valorizzare le filiere produttive e la catena del valore: in pratica far lavorare insieme nella rappresentanza fornitori e riforniti fa bene anche agli affari. Pasini conta molto sull’apporto e sulle capacità di mediazione di Emanuele Orsini, presidente di Federlegno, che ha scelto di appoggiarlo con i suoi voti.

Licia Mattioli conta sul voto di Torino e del Piemonte, su qualche consenso in Liguria ed è in lista d’attesa in Veneto. Non prende un voto in Lombardia e in Emilia. Anche lei ha promesso discontinuità, dicendo ai quattro venti che per il quadriennio passato si sente responsabile soltanto dell’internazionalizzazione e non di altro, quindi una presa di distanza persino ingenerosa. Quanto ai risultati dell’internazionalizzazione, resoconto da lei ripetuto nelle interviste, in sei anni ha portato all’estero tremila imprese in 60 missioni, quindi una media di 50 imprese alla volta. Pochino, insomma, rispetto agli stessi standard di Confindustria e dei suoi predecessori.

Sono dunque chiari sia il perimetro del campo di gioco, sia le mosse che possono ribaltare agevolmente la classifica provvisoria. Manco a dirlo, in tutto questo è pressoché assente (salvo che in taluni interventi di Pasini) un discorso su come rilanciare Confindustria nel Paese, visto che il ruolo storico dell’associazione si è ridotto per via della politica che parla esclusivamente al proprio elettorato e ha a cuore solo a parole il tema della crescita; per via dei pochi grandi che dialogano direttamente e non più anche attraverso Confindustria con le istituzioni e le forze politiche; per la minore incidenza del Sole sulle battaglie economiche e sociali; per un Centro Studi che non ha saputo rinnovare i propri temi rispetto alle tradizionali analisi sulla finanza pubblica o l’andamento dell’inflazione, e si potrebbe continuare. Ma oggi conviene a molti far finta di niente e ripetere che il re è non è nudo ma vestito, magari anche alla moda.

Post scriptum. Andrea Illy, come è noto, ha scritto a tutte le territoriali e le categorie chiedendo di sostenerlo. Ufficialmente solo Reggio Emilia, con Fabio Storchi, avrebbe risposto positivamente. Gli altri avrebbero gentilmente declinato, oppure fatto finta di non aver ricevuto la mail. Confluirà su qualcuno dei tre candidati ufficiali o svanirà allo stesso modo, estemporaneo e decontestualizzato, con il quale è entrato in scena?