Mario Draghi ha colto l’occasione di un premio per pronunciare a Washington un vero e proprio discorso programmatico: per il futuro dell’Europa e anche per se stesso, come candidato più che virtuale alla presidenza del Consiglio europeo dopo il voto di giugno. Quasi nelle stesse ore, Ursula von der Leyen, presidente uscente della Commissione di Bruxelles, ha rilasciato un’intervista dello stesso respiro al Financial Times (che ha già espresso un aperto endorsement per Draghi) in occasione della conferenza annuale sulla sicurezza a Monaco di Baviera. La stessa von der Leyen è parsa accelerare in direzione di un candidatura per un nuovo mandato alla guida dell’esecutivo Ue, anche se per ora fuori dall’ufficialità e – al pari di Draghi – a distanza da tutte le forze politiche che stanno per contendersi nelle urne i seggi dell’euro-parlamento.



Fra le due uscite non è stato difficile individuare più di una consonanza: anzitutto quella data dalla priorità geopolitica. Draghi ha scelto la capitale Usa (non una europea e neppure la più familiare Wall Street) per rimarcare il suo brand personale di uomo delle istituzioni accreditato ai massimi livelli su entrambe le sponde dell’Atlantico, probabilmente come nessun altro leader europeo odierno. Von der Leyen ha scelto la piattaforma mediatica dei mercati globali – basata a Londra, oggi fuori dell’Ue – per consegnare un messaggio preciso: l’impegno, in caso di conferma a Bruxelles, a promuovere un aumento strutturale della spesa militare a livello Ue, nella costruzione di un autentico sistema europeo di difesa integrato in una “nuova Nato”.



Vi possono essere pochi dubbi sulla “scelta occidentale” comune alle due posizioni, che vanno quindi a pre-comporre una sorta di “ticket” come cardine per la nuova governance Ue. Con una forte connotazione “istituzionale”: andando quindi a prefigurare la proposta al nuovo euro-parlamento di una “grande coalizione” composta da tutte le forze disponibili ad appoggiare “Mario & Ursula” su un programma “di salute europea”.

Nel merito, è già possibile individuare alcune macro-opzioni (ne ha in parte accennato Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di ieri). Quella principale appare l’uso della spesa militare nel perseguimento di tre obiettivi: quello geopolitico (rinsaldare i legami – non solo militari – fra Usa ed Europa a 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale); quello economico (rilanciare il drive keynesiano fra Depressione, New Deal e investimenti bellici che ha già funzionato negli Usa negli anni 40 del secolo scorso e nell’Europa del piano Marshall post-bellico); e quello scientifico-tecnologico. Su quest’ultima dinamica la nuova “amministrazione Draghi-Von der Leyen” farebbe leva per recuperare le strategie di transizione eco-energetica e digitale su cui l’Ue aveva già impostato la strategia NextGeneration, poi rifusa nel Recovery Plan, declinato in 27 Pnrr nazionali.



È tuttavia un quadro in cui le politiche di contrasto al cambiamento climatico appaiono in via di impegnativa rimodulazione. Da un lato il rischio climatico è reale e la necessità di cambiare l’economia è condivisa in linea di principio da una parte maggioritaria dell’elettorato continentale. In parallelo, un ridimensionamento troppo drastico delle politiche pubbliche nella transizione ecologica può distruggere il valore delle ingenti risorse private già investite nel green. È pur vero, d’altro canto, che gli ultimi voti nazionali (anzitutto quello olandese) e le forti turbolenze registrate in Francia e Germania, fra “gilet gialli” e marce dei trattori, segnalano un pericolo elevato di contraccolpi politici non marginali, in caso di insistenza su di una transizione verde tecnocratico-ideologica.

A proposito di mercati: in una Ue che difficilmente potrà abbandonare in modo rapido il rigorismo finanziario dei Trattati di Maastricht (appena ripristinato), il finanziamento delle nuove public policies non potrà essere quello classico, incentrato sulla spesa pubblica. Di qui il ritorno forte – stavolta con buone chance di successo – dell’ipotesi di debito comune europeo: non più tabù dopo la svolta del Recovery anti-Covid; ma non ancora realizzato in via strutturale con una larga offerta di euro-bond. Cioè con la riproposta sostanziale di grandi “prestiti di guerra” europei per intercettare risparmi e capitali privati del continente.

Questi ultimi sono però ormai da tempo intermediati dai mercati globalizzati. Non ha quindi sorpreso che l’apertura al riarmo europeo da parte di von der Leyen (ex ministro della Difesa a Berlino) sia giunta attraverso il quotidiano della City, sullo sfondo più ampio e profondo di un quasi irrinunciabile riavvicinamento fra Regno Unito e Ue a otto anni da Brexit, nell’orizzonte di una Grande Nato.

“Bre-verse” è certamente nel programma elettorale dei laburisti inglesi, cui i pronostici assegnano la vittoria elettorale e il ritorno al governo al massimo entro dodici mesi. L’asse “occidentale” fra Usa e Ue (nel contenitore Nato) è d’altronde un punto fermo nel pensiero di Joe Biden: il presidente Usa che al momento resta lo sfidante “dem” di Donald Trump nel voto per la Casa Bianca il prossimo novembre. L’ex presidente repubblicano anche negli ultimi giorni non ha invece mancato di sottolineare il suo approccio neo-isolazionista e di confermare la sua sfiducia nella Nato odierna, che si ritrova a difendere principalmente l’Europa a spese principali dei contribuenti americani.

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