Qualcuno dice che i motivi sono strettamente personali. Altri la legano ai pessimi risultati sportivi. Altri ancora ricordano che il manager ha lasciato anche la presidenza di Philips Morris e il fatto che si fosse ammalato di Covid e che fosse guarito. A dire il vero è troppo presto per capire quali siano le ragioni che hanno spinto Louis Camilleri a dimettersi e a lasciare «con effetto immediato» il ruolo di amministratore delegato di Ferrari e il suo posto nel consiglio d’amministrazione del Cavallino. Gli ultimi anni di Formula 1 non sono stati certo da incorniciare. Anzi, i tifosi della Rossa vorrebbero solo dimenticarli in fretta. Ma sull’altro piatto della bilancia ci sono ineccepibili risultati di bilancio che, grazie anche all’aumento del numero di auto prodotte e vendute, hanno portato le quotazioni di Ferrari (simbolo in Borsa più che mai azzeccato Race) a crescere dal luglio 2018, data dell’insediamento di Camilleri, del 43% rispetto a un listino italiano che nello stesso periodo non ha guadagnato, nel suo complesso, assolutamente nulla.
Risultati sportivi e numeri cozzano uno contro l’altro nei 30 mesi in cui il manager maltese è stato a capo dell’azienda di Maranello e fanno il paio con le contraddizioni sollevate ai tempi della sua nomina. La domanda che ci si poneva allora era una sola: cosa ci fa un maltese che si occupava di sponsorizzazioni al vertice di una delle aziende simbolo del motorismo italiano nel mondo? Certo, gli piacciono le auto di Maranello, ne possiede qualcuna e guarda i gran premi di Formula 1, per lavoro, con molto interesse. Ma che c’azzecca davvero? E con lui che ci azzeccano i suoi uomini e le sue donne catapultati nella Motor Valley italiana da ogni parte del mondo e messi in posizioni chiave?
Hanno dimostrato il proprio valore facendo quadrare magnificamente i conti ed evidenziato i propri limiti facendo un pessimo lavoro sulla squadra corse, il cuore dell’azienda. Perché Ferrari non è solo una fabbrica di automobili. È un mito per il mondo, ma è soprattutto una grande passione, un unicum che nasce con Enzo Ferrari e si trasmette di generazione in generazione nella Motor Valley, dove lavorare a Maranello o guidare un’auto con il Cavallino è il traguardo di una vita. Per essere un ferrarista vero bisogna seguire le gare con il cuore in gola, saltare come un grillo (come faceva Luca Cordero di Montezemolo quando ne era amministratore delegato) per una vittoria in pista, piangere per una sconfitta. Odiare Mercedes e anche Hamilton o chiunque si metta di mezzo sulla strada del traguardo. In pista e su strada. Una Ferrari non può che essere la migliore in assoluto, altrimenti c’è qualcosa di sbagliato. Un mix di sangue, azienda e pistoni impossibile da comprendere per chi non ci è nato in mezzo.
Ora come in passato tornano le voci sull’arrivo di Vittorio Colao (ex Vodafone), Jonathan Paul Ive, ex chief design officer di Apple, ma anche Diego Piacentini e Luca Maestri di Apple. Ma che c’azzeccano con Ferrari? C’è un solo nome che avrebbe senso, quello di Stefano Domenicali, nato a Imola, dopo la laurea sbarcato in Ferrari come impiegato e arrivato ad essere Team Principal della squadra di Formula 1 per le sue capacità e per il suo impegno. Ha dato le dimissioni nel 2014 per andare prima in Audi e poi in Lamborghini dove fino alla fine dell’anno è Presidente e Amministratore delegato. Dal primo gennaio guiderà tutta la Formula 1, ma siamo quasi sicuri che tornerebbe a Maranello di corsa. E solo per pura passione.