Lasciate che vi dia un consiglio: godetevi le prossime due settimane. Perché entro metà maggio, a occhio e croce, gran parte d’Italia sarà nuovamente in zona rossa. Mi è bastato uscire mezz’ora per andare al supermarket per rendermene conto: l’effetto liberi tutti è già ampiamente prezzato, tanto per usare una terminologia di mercato. E poco potrà fare a livello di contrasto e deterrenza il coprifuoco mantenuto alle 22: non si possono militarizzare le città, non fosse altro per l’assenza di un numero sufficiente di agenti e per i compiti più urgenti cui le forze dell’ordine sono chiamate a ottemperare. Ognuno è artefice del suo destino: se gli italiani non riescono a mantenere in vigore tre regolette minime di cautela, vorrà dire che ne pagheranno il prezzo. Salatissimo, stavolta.
Perché nonostante la narrativa degna di miglior causa di chi vede Christine Lagarde fermamente alla guida della Bce, ormai la spaccatura tra falchi e colombe sul piano di acquisti ha varcato gli angusti confini di queste pagine e ha trovato cittadinanza anche sulla stampa autorevole: bene arrivati, nonostante il cronico ritardo. Come con il rischio inflazione, d’altronde. Addirittura, sia Reuters che Bloomberg hanno anche fissato una data per la sfida finale, l’OK Corral della stamperia: il 10 giugno, data del prossimo Consiglio direttivo dell’Eurotower. Più o meno, i tempi coincidono: per allora, probabilmente l’Italia sarà di nuovo in emergenza sanitaria. E, forse, proprio per questo Mario Draghi potrà far valere la sua statura e la sua moral suasion per bloccare l’annuncio di un taper – ancorché graduale – a partire dal terzo trimestre.
Perché signori, se anche si arrivasse a un compromesso da minimo sindacale, magari abbassare entro fine anno il controvalore di acquisti mensili da 20 a 15 miliardi, per il mercato il dado sarebbe tratto. E il re-pricing dei bond periferici immediato e drastico: tradotto, in molti potrebbero scaricare precauzionalmente carta italiana, spagnola e greca. A quel punto, nemmeno Mario Draghi potrebbe fare miracoli. Ma solo alzare barricate, perché si creerebbero i prodromi di un’estate rovente in stile 2011. Il cosiddetto de-risk. Non a caso, il Quirinale ha giustamente trattato le consultazioni post-Conte 2 come una pericolosa e inutile ritualità e chiamato a palazzo Chigi l’ex governatore Bce, fregandosene dei partiti.
In tal senso, ultimamente va molto di moda l’immagine della sospensione della democrazia. Ovvero, il fatto che il Pnrr arrivi a Bruxelles entro il 30 aprile con tempistiche talmente strette da non consentire alle Camere di analizzarlo in maniera certosina e chirurgica, facendo quindi mancare il controllo parlamentare sulle scelte del Governo. A detta di qualche bontempone, un golpe. Ringraziamo invece Dio del fatto che la politica non ci metta né becco, né soprattutto mano. E si limiti a geniali intuizioni come raccogliere firme contro iniziative della maggioranza di cui si fa parte. Il livello è questo signori, volete davvero che statisti di questo calibro aprano anche bocca su un piano da cui dipende la possibilità di evitare una ristrutturazione del debito? Non scherziamo, per carità. Meno fanno, meglio è. E meno sanno, soprattutto.
Perché nessuno, infatti, conosce i reali termini con cui si è conclusa la telefonata tra Mario Draghi e Ursula von der Leyen di sabato scorso, quella esiziale per sbloccare il via libera del Pnrr in Consiglio dei ministri, dopo continui rinvii. Su quali termini Mario Draghi ha posto la sua parola e la sua credibilità come garanzia implicita? Su quali riforme? Nessuno lo sa, tantomeno il Parlamento. C’è però un problema: l’Italia non è in condizione di dettare regole d’ingaggio. E sapete chi dovete ringraziare per questa sospensione della democrazia? Esattamente chi oggi strepita al riguardo, i soloni dell’autarchia da Btp spacciata per salvifica via sovranista all’affrancamento dei mercati (e dell’egemonia tedesca). Quando invece – la cronaca ora lo conferma impietosa – si trattava soltanto di dipendenza terminale da Bce. Non a caso, lo spread è stabilmente tornato in tripla cifra. E proprio ieri ha viaggiato come un treno. E non per un peggioramento dei conti o delle prospettive macro, già ai minimi termini, ma semplicemente per un’anticipazione di prezzatura delle tensioni in seno alla Bce. Figuratevi cosa potrà accadere a ridosso del board del 10 giugno, se il virus non correrà di nuovo incontro ai tossicodipendenti da Pepp.
Andate a chiedere conto di questo clima golpista a chi vi ha rimbecillito per mesi con la favola del debito che non esiste, che si cancella con un tasto, con la liquidità che non costa nulla e non finisce mai, con la Fed come Sacro Graal a cui guardare in nome della politeia. Bussate alle loro porte e chiedete loro conto del perché, oggi, il Parlamento conti quanto una bocciofila dell’Ortica: forse meno, almeno lì si balla. Chiedete loro conto del perché il Quirinale abbia dovuto far ricorso al decisionismo, di fatto sapendo fin dell’apertura della crisi quale sarebbe stato il suo epilogo e prestandosi alla pantomima delle consultazioni gestite da Roberto Fico, tanto per onore di formalità. Chiedete loro conto del perché oggi si arrivi al ridicolo di ergere barricate per un’ora di coprifuoco in meno e di ristorazione in più, quasi quegli 80 euro che entreranno in cassa possano fare la differenza per 70.000 esercizi che – dato Confesercenti – sono comunque destinati a chiudere.
Avete voluto credere per quattro anni alla favoletta prima dell’emettere debito con il ciclostile e poi del non preoccuparsi, tanto compra la Bce? Eccovi serviti, ora tocca accettare le condizioni dell’Europa. Firmando fogli pressoché in bianco sulle riforme strutturali di sistema e costringendo Mario Draghi a spendere la sua credibilità come garanzia. Capite perché il presidente Mattarella lo ha messo a palazzo Chigi, quasi manu militari rispetto al profilo inappuntabile dell’inquilino del Colle? Perché per evitare il default aveva bisogno – utilizzando un termine finanziario – di un collaterale con rating AAA da presentare in sede europea, al fine di ottenere ulteriori deroghe. Abbiamo il 160% di ratio debito/Pil e oltre l’11% di deficit/Pil: per quanto si continui a far notare come il risparmio privato sia di 1.700 miliardi a fronte di impieghi bancari di 1.300 miliardi circa, il problema non è la liquidità del sistema. E dovreste capirlo in maniera intuitiva. E sentire un brivido lungo la schiena. Un ragionamento simile, infatti, implica una cosa sola. Repressione fiscale e finanziaria, patrimoniale e intervento sui conti stile Amato: altrimenti, perché continuare a rivendicare solvibilità mettendo in piazza il corrispettivo da conto corrente del mussoliniano oro alla Patria?
D’altronde, questo è il Paese in cui fino a poco tempo fa si parlava senza vergogna di Bot e Btp patriottici, vi ricordate? Bene, ora godetevene le conseguenze. E smettiamola di scomodare figure retoriche come la sospensione della democrazia, condizione drammatica che molti Paesi vivono realmente. Qui abbiamo il partito di maggioranza relativa nel Paese che raccoglie firme contro i provvedimenti varati dal Governo di cui fa parte: al limite siamo alla pantomima della democrazia, roba da film di Woody Allen. Tra poco, ve lo anticipo, qualche genio facente capo alla schiera di chi ci ha messo in queste condizioni salterà fuori con il precedente greco, ergendosi a novello Glezos contro l’ingerenza in stile nazista dell’Unione europea nel nostro processo di riforme e nell’utilizzo dei fondi del Recovery plan. Statene certi, l’idiozia è già nell’aria che cerca un varco d’entrata.
Primo, l’Europa si è comprata il diritto di ingerenza a colpi di Btp acquistati tramite la Bce. Avevano paura delle condizionalità del Mes? Ora si godano quelle ben peggiori e più vincolanti del Pepp, pena la sua fine anticipata. E lo spread di nuovo a 300 con somma gioia del doom loop di banche e assicurazioni. Secondo, diciamolo una volta per tutte. L’Europa ha esagerato con la cura imposta alla Grecia, verissimo. Ha quasi ammazzato il cavallo, agendo con miopia. E persino crudeltà. Ma diciamoci anche chiaramente altro: se Atene non avesse truccato i conti, mentendo così agli investitori e facendosi certificare la bugia da Goldman Sachs tramite un bello swap, forse non sarebbe arrivata a quell’epilogo. E ancora, se sempre Atene avesse evitato l’azzardo da incompetente economica totale di puntare tutto sull’effetto moltiplicatore del Pil dei Giochi olimpici del 2004 per cercare di rientrare dai magheggi e non far scoprire la bugia iniziale sui conti (gli swaps servono a questo, a coprire l’accountability creativa), forse non avrebbe costretto i suoi cittadini a subire quel trattamento di austerity. Perché non solo quelle Olimpiadi si rivelarono un flop a livello di ritorno sulla crescita, ma costarono un occhio della testa, circa 10 miliardi di euro solo in fase preparatoria e con un impatto sulla ratio del debito del +5,3%. Di fatto, i prodromi reali della crisi debitoria che sei anni dopo squassò il Paese.
Chissà in quanti ci hanno mangiato, però, con quelle spese folli per i Giochi Olimpici, magari gli stessi personaggi che poi gridarono al nuovo nazismo della Bundesbank e della Troika. Vi ricorda nulla, questo atteggiamento? Ve lo dico per l’ennesima volta: la ricreazione è davvero finita.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.