Temo, cari lettori, sia davvero giunto il momento per una riflessione seria sulla condizione in cui siamo precipitati, quasi senza accorgercene. Durante lo scorso weekend, tutti i giornali riportavano la notizia relativa al sorpasso da parte di Bill Gates su Jeff Bezos a livello di ricchezza e patrimonio personale. Insomma, Microsoft batte Amazon. Immediatamente, i nostri pensieri vanno a conti correnti miliardari, ville da sogno, holding per gestire quella fortuna, vite agiate per almeno le prossime dieci generazioni di eredi. E anche buone azioni e filantropia, in alcuni casi. Vogliono che vediamo questo: il superfluo, inteso come prospettico.
Bene, il 3 novembre, pochi giorni prima della pubblicazione del dato su quel sorpasso, è accaduto dell’altro. Ce lo mostrano questi due grafici, destinati a infoltire la schiera di classifiche e record infranti.
Il primo ci dice che Apple oggi capitalizza, da sola, più dell’intero comparto energetico statunitense. E questo, di per sé, a casa mia già fa scendere un brivido lungo la schiena. Perché per quanto l’azienda di Tim Cook sia iconica e ci regali sempre nuovi prodotti, alla fine non brevetta cure per il cancro o automobili che viaggiando ripuliscono l’aria dal particolato e dalla Co2: produce (a basso costo e in Paesi dove i diritti sono spesso simili a chimere) telefoni, tablet e pc. Belli, funzionali, ricchi di fotocamere per immortalare vacanze al mare o spaghetti allo scoglio mangiati in compagnia. Ma pur sempre telefoni. Roba che metti in tasca e usi, almeno per la gran parte delle volte, per andare su Facebook a farti i fatti altrui. Od organizzare il calcetto nel gruppo di WhatsApp.
E c’è di peggio. A cosa deve il suo successo di Borsa, la Apple? Il suo market cap strepitoso di cos’è figlio? Di un programma di buyback azionario iniziato addirittura nel terzo trimestre del 2013, ben in anticipo sulla mania generale delle emissioni folli per finanziare riacquisto di propri titoli. In questo sì Apple è all’avanguardia: nell’utilizzo furbo e al limite dello spregiudicato dell’ingegneria finanziaria, nello sfruttamento degli schemi Ponzi che questo mercato da codice penale che flirta con la patologia psichiatrica garantisce a chi è abbastanza grande da poterlo navigare. Negli ultimi sei anni, Apple ha ricomprato circa un terzo di tutte le proprie azioni circolanti: in base a questo trend, non ci saranno titoli “pubblici” nel suo outstanding fino a circa il 2030. E non basta ancora. Perché non solo il sorpasso sull’intero settore energetico Usa è avvenuto in contemporanea con il taglio della guidance a causa dei risultati di mercato in Cina peggiori delle attese, ma anche subito dopo l’emissione di un bond denominato in euro a coupon zero, attraverso gli introiti del quale Apple ricomprerà altri titoli sul mercato. Ovviamente, è andato a ruba.
E il secondo grafico, invece, cosa ci dice? Semplice, sempre restando in materia di correlazione fra market cap, oggi la Walt Disney (sì, proprio quella di Topolino) con i suoi 268 miliardi di dollari è più grande delle cinque principali banche europee (Bnp Paribas, Santander, Intesa, ING e Credit Agricole). Vi pare normale, una cosa simile? Direte voi, se Walt Disney garantisce con i suoi film, le serie tv e il merchandising più utili agli azionisti che un settore bancario sempre in regime di sofferenza, certo che è normale. Trattasi di mercato. E qui casca l’asino: non è mercato, è quello che Michael Hartnett di Bank of America ha definito nel suo ultimo report “un mercato del Toro completamente indotto dal Qe”.
Eh già, cari lettori. Perché per quanto se ne parli davvero poco, nei prossimi sei mesi Fed e Bce hanno programmato acquisti per 420 miliardi di dollari in assets. Restando oltretutto in un regime di minimo sindacale, ben lontani dal bazooka reale. Certo, la Fed sta combinando al Qe vero e proprio anche un’attività repo e term quotidiana che garantisce miliardi di dollari di liquidità a breve e brevissimo termine, quindi facendo aumentare il controvalore in circolo e a bilancio. Ma, a livello di acquisti di assets in un contesto programmato, siamo a un controvalore ancora limitato: qualcosa mi dice che, entrando nell’anno delle presidenziali, qualcosa cambierà nella guidance forzata di Jerome Powell e soci. E, ovviamente, ecco che Apple crescerà ancora e ancora. E la Walt Disney. E, magari, anche gli unicorni della Silicon Valley rimanderanno l’appuntamento con il default, perché quando le Banche centrali scendono in pista, tutti quanti possono sperare di farsi almeno un ballo.
Sapete a quanto ammonta il debito globale, oggi? È appena uscito il report dell’Institute of International Finance con il dato aggiornato: stando alle proiezioni, il 31 dicembre prossimo il mondo annegherà in qualcosa come 255 triliardi di indebitamento, fra governativo, privato, corporate e finanziario. Ce lo mostra questo grafico, dal quale si evince che la spirale appare ormai totalmente fuori controllo.
Cina e Usa, lungi dal farsi veramente la guerra, stanno solo cercando un modo per rendere questa dinamica folle in qualche modo sostenibile: senza una monetizzazione di massa di quel debito, la strada è però segnata. Ecco quindi spuntare le guerre commerciali, l’instabilità geopolitica diffusa, i green new deals di varia natura e latitudine per vendere ai cittadini la favola ecologista di uno sviluppo sostenibile per l’ambiente che richieda però un intervento pubblico monstre: stanno solo raschiando il fondo di un barile che, ormai, mostra i segni e le scheggiature del legno. Anche perché, proprio Cina e Usa hanno recitato la parte del leone nell’aumento di quel debito: solo Washington e Pechino, infatti, hanno pesato per il 60% della crescita a livello annuale. La quale, solo per i primi sei mesi di quest’anno, è stata di 7,5 triliardi di dollari.
E i mercati emergenti? Il loro indebitamento ha toccato i 71,4 triliardi di dollari, pari al 220% del Pil. A livello globale, invece, quella ratio è al 330%. E a livello di debito sovrano o governativo, che dir si voglia? Soltanto la crescita di quello federale statunitense ha quasi permesso al dato di toccare nella sua interezza i 70 triliardi dai 65,7 del 2018. Pensate che da una situazione simile si possa uscire con ricette ordinarie, fosse anche soltanto a livello di politiche monetarie di stampo espansivo in maniera strutturale? Di più, pensate che – al punto in cui siamo arrivati – si possa uscirne in qualche modo, senza ritrovarsi con le ossa rotte e una nuova crisi ben peggiore di quel del 2008 a chiederci di saldare – almeno parzialmente – il conto?
È ovvio, naturale e quasi logico, quindi, che in un mondo simile Apple da sola capitalizzi più dell’intero settore energetico Usa. E la Walt Disney più delle principali cinque banche europee. Non lamentiamoci, però, di quanto ci toccherà pagare per aver permesso questa follia. Con la complicità o anche soltanto con il silenzio, perché se i media nascondono le notizie come fanno, è perché lettori e spettatori chiedono altro. Chiedono intrattenimento, non verità. Per questo, Apple e Walt Disney svettano, al netto dei buybacks strutturali. Perché in un mondo di bambini che sguazzano nelle bugie, l’incantatore di serpenti diventa Re per acclamazione. Ma l’attentato di Sarajevo, piaccia o meno, è sempre dietro l’angolo. In attesa che, da buoni rivoluzionari dell’ultim’ora, da barricaderi con i mobili altrui, non si riempiano le piazze schiumanti rabbia e invocanti il sangue del despota di turno o le cabine elettorali dove plebiscitariamente mandare al potere chi minacce le vendette più atroci e impietose: un po’ come accaduto sabato per le strade di Parigi, seguendo il più scontato dei copioni da “rana di Chomsky” nel celebrare uno stanco anniversario di mistificazione dello scontento. Siamo fritti, prendiamone atto.