Da cosa cominciare, oggi? Gli argomenti non mancano. Ad esempio, penso sia salutare prendere atto e riconoscere fra gli applausi scroscianti la bontà di analisi di chi, per settimane e settimane (prima, durante e anche dopo le elezioni europee dello scorso anno), pontificava sulla fine politica di Angela Merkel, prefigurando magnifiche sorti e progressive di evoluzione dell’Ue dal gretto regime di surplus tedesco. Meno male che la Cancelliera era politicamente morta, figuratevi se fosse stata viva quale banchetto avrebbe apparecchiato l’altro giorno nella call privata con Emmanuel Macron. Lo stesso, vale la pena ricordarlo, che il Churchill del Tavoliere che abbiamo a Palazzo Chigi ha preso sotto braccio, fidandosi della conversione francese in sede europea per mettere all’angolo proprio la Merkel. Penso che un cobra nelle mutande rappresenti presenza più rassicurante di quella dell’inquilino dell’Eliseo. Sceglierlo come alleato, quindi, ha un unico significato implicito: essere disperati.
Io non entro nel merito del cosiddetto Recovery Fund, posso solo dirvi che si tratta di una melina. Bella e buona. E lo sanno tutti, Italia in testa. Vi dirò di più, opposizione sovranista in testa. Tutti sanno cosa attende l’Italia da qui a pochi mesi eppure continuano a giocare a nascondino con la realtà. Bella classe dirigente, non c’è che dire. In effetti, poveri tedeschi che devono sopportare ancora Angela Merkel. Quella formula – che qualcuno vorrebbe addirittura come prodromo embrionale di una mutualizzazione del debito in seno all’Ue, ma, trattandosi quasi sempre della stessa gente che recitava il de profundis della Cancelliera, non preoccupatevene troppo – altro non è che una supecazzola degna del conte Mascetti, roba da scherzo al vigile urbano sotto casa del Necchi. Pensate davvero che Olanda e Austria, Paesi che non aprono nemmeno i tabaccai senza che la Germania dia l’ok, si mettano di traverso a una proposta di Berlino, se questa fosse davvero seria e concordata? Vogliamo parlare di Danimarca e Svezia, forse?
Ovviamente, si giocherà al ribasso, quando si entrerà nel vivo della questione. E non per soldi, attenzione. L’Europa è in grado di aumentare anche quella cifra, basti ricordare che trattasi del medesimo soggetto politico che si è bevuto in ordine cronologico la bontà del veicolo a leva di Jean-Claude Juncker e la panzana del Green new deal di Ursula Von der Leyen, quindi potrebbe tranquillamente credere anche a un’affermazione di Danilo Toninelli, senza battere ciglio. Il problema è che a questo punto, l’Italia viene messa sulla graticola. Lo sanno tutti, opposizione in testa. Per questo tutti sono terrorizzati, in realtà, dall’ipotesi del voto, per quanto strepitino a ogni piè sospinto rispetto alla sospensione della democrazia e alla necessità di ridare la parola al mitologico popolo.
Signori, prendiamone atto: i rubinetti sono chiusi, fine dell’allegra mangiatoia. Pensate che l’ipotesi di Mario Draghi a palazzo Chigi possa nascere senza il presupposto fondativo di un Paese che debba essere preso e rivoltato come un calzino, forse? Da Bankitalia alla gloria imperitura della Bce del whatever it takes, passando dal Britannia e Goldman Sachs, per finire a fare il curatore fallimentare del Paese? Scordatevelo. Stanno tutti quanti prendendo tempo, stanno tutti attendendo che qualcuno trovi il coraggio di staccare la spina. Siamo all’eutanasia di una stagione di soldi buttati in mancette elettorali e assistenzialismo diffuso, siamo ai titoli di coda delle emissioni allegre di debito per finanziare politiche economiche da mani nei capelli, siamo al tramonto delle rendite di posizioni, siano esse in seno a Confindustria (e la leadership di Carlo Bonomi, in tal senso, fa ben sperare) che ai sindacati. E non perché lo abbia deciso Angela Merkel o il Bundestag in seduta notturna e modalità cospirativa per la creazione del Quarto Reich: perché il mondo non è in grado di sopportare che la terza economia dell’eurozona ragioni come l’Argentina peronista. Perché il Covid-19 ha rappresentato la pietra tombale dell’ultima illusione criminale in fatto di scelte economiche, ovvero quella globalizzazione senza limiti, né regole che ha tramutato uno scantinato a cielo aperto di cucitori di jeans da quattro soldi come la Cina in un gigante economico che detta le condizioni a colpi di dumping, stamperia di Stato, debito strutturale e sistema bancario ombra.
Le filiere si accorceranno enormemente, statene certi. Finirà, giocoforza, l’epoca della delocalizzazione di massa, della corsa al ribasso, delle scappatoie. Occorrerà investire seriamente in produttività, eccellenza, in capacità di abbattimento dei vincoli burocratici, delle forche caudine di un sistema bancario che sta in piedi solo per comprare Btp al Tesoro e riceverne in cambio trattamenti di favore, al fine di innaffiare orticelli clientelari tramite le Fondazioni. Occorrerà capire che, piaccia o meno, non esistono solo diritti. Ci sono anche i doveri. Che non esiste solo il debito, esiste anche la necessità di ridurlo. Ripagandolo.
Un bel problema. Uno shock. Inevitabile, però. Quindi, evitiamo di credere alla pagliacciata del Recovery Fund o dello stesso Mes come panacea per alleviare, per l’ennesima volta, il male storico dell’Italia. Occorre amputare, punto. E non lo dice il sottoscritto che non conta nulla, lo dice questo: un abominio simile è forse colpa del rigorismo europeo, del surplus tedesco, del regime fiscale off-shore dell’Olanda o di un sistema disfunzionale fieramente sovrano e tutto italico?
Questo Paese non ha fisicamente spazio fiscale per nulla, basti vedere la necessità di riaprire tutto in fretta e furia per risparmiare le briciole della cassa integrazione in deroga. Le opposizioni chiedono un anno di tregua fiscale, non so se parlando seriamente o se prestandosi così a un gioco delle parti, un po’ come fa l’Austria in sede Ue: l’Italia attuale non può permettersi nemmeno tre mesi di moratoria fiscale. Parlano i fatti, la realtà di questi giorni, le saracinesche tristemente rimaste chiuse la mattina del 18 maggio. Non sentite nell’aria un odore sgradevole ma rassicurante, quasi familiare e fetale nell’approccio consolatorio con cui si palese sull’uscio del destino? È l’odore della resa. Che non significa aver perso la guerra e offrirsi come prigionieri, semplicemente prendere atto che abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità per troppo tempo. Sprecando denaro, mantenendo in vita stipendifici o carrozzoni disfunzionali come Alitalia, garantendo in ultima istanza come ricetta al malessere e al disagio sociale il reddito di cittadinanza. O sperando di ingraziarsi l’elettorato over 55 con la mossa inutile e destabilizzante di Quota 100, quando forse il problema è quella di garantire in lavoro a chi si avvicina a quota 25, intesa come età in cui i nostri giovani o vanno all’estero o cominciano a vagabondare fra un lavoro sottopagato (o in nero) e l’altro.
Perché esiste la cosiddetta fuga dei cervelli, perché sono tutti masochisti o esterofili impenitenti? O perché all’estero forse c’è qualche speranza in più di ottenere qualcosa dalla vita in punta di merito, pur non avendo un cugino assessore o un padre notaio? E peggio ancora, se si corre a gambe levate a fare il cameriere o il pizzaiolo a Londra o Berlino e non il dottorando in fisica nucleare, quale messaggio dovremmo avere l’umiltà di cogliere, come Paese? Bene signori, la lenta graticola europea che stiamo per conoscere è il caso di viverla in positivo. Ovvero, un periodo di presa di coscienza e rimozione degli alibi. Sinceramente e al netto della retorica patriottica da discount di chi vorrebbe salvare il Paese con emissioni di debito a 30 anni e rendimento negativo (ovviamente, il tutto in modalità teorema Ricucci, ovvero con la Bce che compra in automatico tutto ciò che il mercato ti tira dietro), come possiamo ritenerci “innocenti” di fronte all’Europa, se siamo i primi a passare la vita a lamentarci dei politici incapaci, dello Stato inefficiente, della burocrazia opprimente, delle tasse esose, dei servizi pubblici carenti e costosissimi?
Scusate, queste storture sono causate dalle scelte di Berlino e Bruxelles o dal sovranissimo lavoro di gestione del Paese del nostro Parlamento, da almeno 40 anni abbondanti? Perché è facile spaccare il capello in quattro e attaccarsi ai like dei social network, citando normative idiote come quelle sulla curvatura delle zucchine o la grandezza delle vongole. Lo è un po’ meno quando tocca ammettere che, già oggi, senza il backstop, senza la mano visibile degli acquisti della Bce, il collocamento del Btp Italia – di fatto, il porcellino salvadanaio di emergenza già rotto in contabilizzazione ex ante dal Tesoro per cercare di passare l’estate e non doversi rimangiare il Decreto rilancio – non sarebbe stato il successo che tutti stanno celebrando, manco avessimo vinto i Mondiali. E, forse, avrebbe invece accelerato il processo di accensione emergenziale del Mes.
Vogliamo continuare a negare la realtà, a vedere solo i difetti altrui e i nostri pregi? Ci consola maledire il dumping fiscale olandese, mentre osserviamo una Spoon River di saracinesche chiuse? Facciamolo. Ma partendo da un presupposto: la stagione degli sconti è terminata, in Europa avremo soltanto quello che in politica industriale si chiama sostegno alla riconversione. Se invece pensiamo di andare avanti come fatto finora, le porte si chiuderanno del tutto. Non a caso, l’ombra che incombe su piazza Colonna e il suo edificio principale è quella di Mario Draghi, uomo sideralmente lontano da certe follie economiche e teorie politiche da salotto buono per intellettuali caduti in disgrazia. Quanto manca al punto di svolta? Poco, quantomeno per avere un primo segnale. Il 4 giugno il board della Bce sarà chiamato all’ampliamento del piano Pepp di sostegno all’economia, stante il ritmo attuale e ormai strutturale di acquisti attorno ai 6 miliardi quotidiani che farebbe terminare il supporto agli spread già a settembre prossimo.
Quel giorno si capirà davvero quanto tempo ci rimane, quanto margine di trattativa abbiamo: margine reale, non pagliacciate come le alleanze con Emmanuel Macron o, in senso opposto, la geniale intuizione di fare comunella con gli scrocconi di Visegrad. Tutto il resto, è politica. Chiacchiericcio sulle rovine. E oggi conta meno di zero, come dimostra l’indegna, ennesima e spudorata pantomima di potere andata in scena ieri in Senato. Oggi come non mai, primum vivere. E il Paese sta morendo.