La data del 5 maggio contiene in sé un potere evocativo storico, quasi una profezia. Quest’anno, almeno formalmente, non fa eccezione. Oggi, infatti, la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe si pronuncerà sulla liceità del nuovo programma espansivo della Bce, il Pepp nato come risposta emergenziale alla pandemia da coronavirus e già finito nel mirino dei cosiddetti “falchi”. Questo strappo di un articolo del Financial Times di ieri lo certifica in maniera chiara, di fatto smentendo quella che fu la motivazione originaria del rinvio rispetto alla scadenza originaria di marzo. All’epoca, infatti, si parlò di rinvio causa emergenza Covid-19, oggi si ammette che il tempo intercorso è servito per inserire anche (e soprattutto) il Pepp nel novero di liceità al vaglio dei togati tedeschi.



E si va oltre: si dice già, chiaramente, che quel programma vìola la Costituzione tedesca in più punti. Non tanto e non solo per i suoi 750 miliardi di stanziamento che, da più parti, si vorrebbero già portare a 1.250, quanto per le deroghe ai criteri statutari del Qe originario messe in campo. In primis, la cosiddetta deviazione dal criterio di capital key sul controvalore di acquisti obbligazionari pro quota in capo alle Banche centrali nazionali su mandato dell’Eurotower. Per capirci, il fatto che in nome dello scudo sul debito italiano (too big to fail), nel primo mese di operatività Francoforte abbia comprando Btp su un livello percentuale pari a circa il 32% del totale contro il 17% che statutariamente toccherebbe a Roma.



Ma su cosa potrebbe decidere la Corte tedesca, in realtà? Quali bastoni fra le ruote potrebbe mettere al Pepp e alla sua legittimità? Di fatto, tre. Primo, la questione del tetto del 33% per emittente. Secondo, proprio la deviazione in atto rispetto ai controvalore pro quota di acquisti, visto che all’aumento di Btp è corrisposto il calo di Bund drenati dal mercato secondario. Terzo e forse più serio e minante, la possibilità di vendita dei titoli in detenzione prima della loro maturity, di fatto la pietra tombale sulla silenziosa e latente monetizzazione del debito in atto. Comunque vada, passasse anche solo uno di questi principi, sarebbero potenzialmente guai per il nostro spread.



Io dubito che la Germania, stante anche le condizioni macro del Paese, abbia in questo momento interesse a destabilizzare la situazione più di quanto già non lo sia e quindi, preso atto dell’indipendenza della Corte di Karlsruhe, propenderei per una sentenza pilatesca che garantisca comunque ancora qualche mese di operatività straordinaria alla Bce. Detto questo, resta un fatto. Se per caso invece dalla Germania arrivasse un siluro concreto che rischiasse di minare la potenza di fuoco dell’Eurotower, come reagirebbe buona parte della politica italiana? Mi riferisco, ovviamente, a Lega, Fratelli d’Italia e M5S, magari con qualche vagito in tal senso anche da parte di Forza Italia.

Ovviamente, partirebbe una campagna anti-tedesca degna del pomeriggio che anticipa la finale dei Mondiali di calcio, a colpi di stereotipi ed evocazione del Quarto Reich. E ci sarebbe da ridire, non tanto nel merito, quanto a livello culturale, ammesso e non concesso che si possa scomodare questo termine per una tale disputa. Perché la Corte di Karlsruhe, in caso dovesse vincolare la Bundesbank in sede di Consiglio direttivo e il governo tedesco nell’ambito della istituzioni Ue, non farebbe altro che ribadire con forza un concetto che dovrebbe mandare in sollucchero i sovranisti di casa nostra. Ovvero, le leggi nazionali contano più di quelle europee. Nella fattispecie, se qualcosa osta o vìola la Costituzione tedesca, i rappresentanti di Berlino devono opporsi. In nome del popolo. Eppure sono quasi certo che, se da Karlsruhe arrivasse una decisione che facesse salire lo spread anche solo di 10 punti base, questo sacrosanto principio da Prima i tedeschi verrebbe schifato e additato al pubblico ludibrio.

Perché dico questo? Perché temo che stiamo perdendo di vista il Nord e la rabbia che, giorno dopo giorno, monta fra capannoni e stabilimenti, negozi e uffici. E sarebbe un rischio mortale. Cerco di spiegarmi. Da tempo, ormai, la parte produttiva del Paese non ha più una rappresentanza politica forte e di riferimento. Fratelli d’Italia e M5S sono connotati dal Centro Italia in giù, storicamente. Forza Italia ormai appare residuale e il Ps gioca da sempre la carta del jolly, mentre chi aveva il monopolio delle istanze settentrionali, ovvero la Lega un tempo Nord, ora rincorre modelli nazionalistico-sovranisti in stile Front National francese. Con ottimi risultati elettorali, nessuno lo nega. Ma adesso, con una recessione di fronte che preannuncia un Pil a -10% potenziale, quanto reggerà ancora la pantomina del fuori dall’Europa, dell’Italexit minacciato a ogni piè sospinto, dell’amicizia con drenatori di fondi e professionisti del dumping salariale e fiscale come l’Ungheria di Viktor Orban o la Polonia?

Poco, molto poco. E non solo perché tutti, anche i sassi, sanno che la Bce sta tenendo letteralmente in vita il nostro debito pubblico. Ma perché la crisi, quella reale che solo l’avvio operativo della Fase 2 renderà palpabile nella sua drammaticità quotidiana, riporterà a galla tutte le contraddizioni in seno a questo Paese. E la ricetta della Lega post-Bossi è destinata a crollare come un castello di sabbia, culturalmente prima che politicamente. Il senatore Matteo Salvini ha ormai due mantra: la Bce come compratore di ultima istanza e gli Stati Uniti come modello di sistema basato su una Fed onnipotente.

Bene, partiamo da quest’ultima e guardate questi due grafici: il primo ci mostra quale sia l’unico beneficiario, almeno fino a oggi, dell’operatività da bazooka della Federal Reserve. Wall Street, come al solito. Ormai il re-couple fra corsi azionari statunitensi e bilancio della Banca centrale (appena entrato in area 6.600 miliardi di dollari) è addirittura imbarazzante, nemmeno l’onorevole Borghi potrebbe negarlo. Il secondo grafico ci mostra invece un proxy decisamente pesante: ovvero, a fronte di oltre 30 milioni di americani che hanno perso il lavoro nelle ultime sei settimane e degli accantonamenti record già posti in essere dalle più grandi banche Usa, in attesa di un’ondata di default corporate e privati su prestiti, guardate dove rischia di andare a finire quella voce di delinquencies su crediti deteriorati.

Vi pare una prospettiva che possa andare a braccetto con la retorica salviniana di una Fed che salva l’economia reale, intervenendo stampando moneta come la tipografia Lo Turco? Direi di no. Qual è quindi il nodo, forse che la Lega si preoccupa solo di sostenere i corsi azionari? Assolutamente no. Il problema è, appunto, culturale. E lo mostra plasticamente questo grafico, il quale compara in maniera impietosa la potenza di fuoco a livello di acquisti (e, implicitamente, di collaterale accettato) di Fed e Bce dall’inizio della crisi da Covid-19. Ecco cosa rende la Federal Reserve la nuova Excalibur leghista in chiave nazional-sovranista: il fatto che de-responsabilizzi completamente la politica, stampando allegramente e garantendo a tutti la possibilità di indebitarsi e fare deficit senza preoccuparsi del domani.

Il problema sostanziale, se visto con gli occhi di un Nord che da qui al prossimo mese potrebbe subire lo shock di scoprirsi non solo vulnerabile e ferito, ma, in molti strati, anche a rischio di povertà o già povero, è che la ricetta del senatore Salvini è perfettamente in linea con provvedimenti come il reddito di cittadinanza o i mantra statalisti di Fratelli d’Italia. Ma è in netta antitesi con la voglia di concorrenza, mercato, produttività e liberazione dai lacci della burocrazia di un Nord che poteva accettare certe ambiguità quando ancora correva ma non certo adesso, zoppicante come si trova ad essere.

Sapete in cosa si sostanzia il significato di quell’ultimo grafico? Nella sindrome che ha colto la Lega del nuovo corso, soprattutto negli ultimi mesi di emergenza, casualmente coincisi con la disputa sul Mes e soprattutto con la sparizione totale dai radar del suo numero due, Giancarlo Giorgetti. Ovvero, i consiglieri economici del fu Carroccio hanno fatto innamorare il loro leader del loro complesso da “nanismo assistenzialista”, ovvero l’invidia verso quei miliardi gettati al vento dalla Fed per garantire ai banchieri di Wall Street di non andare in rovina e che consente alla Casa Bianca di lanciarsi in giri di valzer retorici e operazioni shock sul fisco come quella della primavera 2018. E anche in quel caso, chi ne beneficiò? Wall Street, poiché i soldi off-shore rimpatriati a costo zero dalla corporations finirono in ricchi buybacks che garantirono a Donald Trump mesi di tweets celebrativi per i sempre nuovi record frantumati dagli indici.

Lo ha ammesso lo stesso Presidente, il quale prima che cominciassero le Primarie (e il caos Covid-19), era stato infatti costretto a promettere un nuovo shock fiscale, ma designato questa volta per la classe media. Il Nord non vuole denaro a pioggia stampato di notte, né tantomeno assistenzialismo peloso finanziato a colpi di deficit strutturale: vuole lavorare, vuole meno tasse, vuole meritocrazia e un sistema bancario che gestisce risparmio e garantisce credito, piuttosto che comprare Btp con il badile. Il problema della ricetta leghista è che per sgravare le banche da quel doom loop, si vorrebbe un mondo fatato in cui la Bce compra tutto il debito che noi emettiamo e che il mercato non vuole, in automatico. Senza condizioni, né premi di rischio. Insomma, sole splendente e cieli azzurri per decreto.

Il Nord non campa di sogni, bensì di pragmatismo. A volte addirittura feroce, per qualcuno impietoso nei ritmi e nella rigidità morale, ferreo nella sua etica del lavoro. Quasi luterana. Ovvero, tedesca. Attenzione a lasciare quel Nord senza rappresentanza come, di fatto, è oggi. Perché, lo ripeto: oggi ancora prevale la voglia di riaprire, la speranza e la buona volontà. Ma nelle prossime due, tre settimane temo che saranno lo sconforto e la paura a menare le danze, quando si dovranno fare i conti con i numeri impietosi della crisi. Fatture, bollette, stipendi, costi fissi, fornitori, fidi e prestiti da onorare, linee di credito da rinnovare, liquidità che si esaurisce. Non si può promettere o, peggio, millantare interventi salvifici – quasi taumaturgici – della Bce come unica risposta a tutto questo, come grande rivoluzione su cui incentrare l’intero programma politico. O, quantomeno, la battaglia in seno all’Europa. Perché è falso. Suicida. Ipocrita. E da solo, giustificherebbe la sentenza più dura che la Corte di Karlsruhe abbia mai scritto ed emesso nella sua storia. Ma, soprattutto, perché è frutto di una mentalità statalista e assistenzialista della peggior specie. Il “nanismo assistenzialista”, appunto. L’antitesi di quanto chiede il Nord che produce. E che ora dovrà curarsi le ferite. Profonde.