Tutto cominciò il 5 marzo scorso, quando La Repubblica pubblicò una corposa inchiesta su una mega-banca clandestina cinese attiva in Italia. Caso che sbarcò anche in Parlamento e alla Commissione antimafia e che metteva nel mirino l’attività di filiali fantasma di un potentissimo istituto di credito del Dragone, apparentemente intento a riciclare miliardi di euro nel nostro Paese. La notizia passò sotto silenzio a livello di opinione pubblica, ma, appunto, fece il suo dovere nelle stanze del potere. Il tutto a nemmeno tre mesi dallo scandalo, sempre portato alla luce con grande clamore dal quotidiano diretto da Maurizio Molinari, della polizia clandestina cinese, operante nel nostro Paese attraverso veri e propri commissariati-fantasma e intenta a dare la caccia a dissidenti.
A La Repubblica si è poi unito Il Foglio con la sua campagna a tappeto contro l’Ambasciata cinese a Roma, tacciata di metodi intimidatori nei confronti della stampa. E paragonata per questo a quella russa, da sempre molto attiva (e spesso sgrammaticata nei suoi interventi via social) nel contrasto della narrativa nostrana sul conflitto ucraino. Tanto da essere a sua volta inglobata nel più ampio scenario delle fantomatiche antenne misteriose presenti sui tetti delle sedi diplomatiche di Mosca in Europa.
Sembra una spy-story di infima qualità, invece è la cronaca quotidiana. Da qualche giorno, poi, la novità. Che vede accomunati quasi tutti i quotidiani più importanti del panorama nazionale e che vedrebbe il Governo italiano pronto a uscire dal progetto di “Nuova Via della Seta” in ossequio alle pressioni degli alleati Nato e in asse concordato e ferreo con il Governo statunitense. Non a caso, solo giovedì Giorgia Meloni ha incontrato a palazzo Chigi lo Speaker della Camera Usa, Kevin McCarthy, in missione anti-cinese a Roma presso le casematte della politica e in Vaticano. Lo stesso McCarthy che solo il 6 aprile scorso ha incontrato in California il presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, nonostante la diffida in tal senso delle autorità cinesi.
Conferme ufficiali rispetto al gran passo indietro italiano nei rapporti strategici con la Cina? Zero. Almeno per ora. Ma le cronache, mai smentite da palazzo Chigi, parlano con sempre maggiore intensità e dovizia di particolari di un secco strappo al memorandum d’intesa siglato nel marzo del 2019 dal Governo Conte-1, il cui gran tessitore fu il leghista ed ex sottosegretario al Mise, Michele Geraci. Oggi stabilmente in Cina come visiting professor. Un’uscita – quella dall’accordo strategico Roma-Pechino – che lo stesso Il Foglio definisce preventivamente e onestamente a forte rischio di un caos, sottolineando l’attivismo in tal senso della solita Ambasciata cinese a Roma, in fibrillazione nel tentativo di operare moral suasion sulla politica italiana.
Sempre giovedì, poi, questo grafico. Postato dal capo economista dell’Iif ed ex forex strategist di Goldman Sachs, Robin Brooks. L’Iif, nulla più e nulla meno che la Banca centrale delle Banche centrali. Roba pesante.
E cosa twitta il buon Brooks a corredo dell’immagine? Sottolinea con falso stupore il +131% di esportazioni italiane in Cina nel febbraio di quest’anno rispetto a quello del 2022. E si chiede a cosa sia dovuto questo balzo, stante l’assenza di una simile dinamica in seno all’economia più filo-cinese d’Europa. Ovvero, quella tedesca. Se non si tratta di fame di import da re-opening, visto che proprio la corazzata da esportazione berlinese pare invece in stato di stand-by, cosa stiamo esportando noi italiano con il turbo verso Pechino? E perché? Forse, qualcuno sta minacciando tana – con toni e metodi da avvertimento intimidatorio – a una possibile triangolazione che veda la Cina come destinatario di comodo, quasi un prestanome, dell’export delle aziende italiane verso la sanzionata Russia?
Una cosa è certa: in queste ore e giorni, Roma è nel pieno di un riequilibrio di tensioni politiche, diplomatiche e commerciali come non si vedeva dai tempi del Lodo Moro. E viene da chiedersi: davvero in ossequio ai diktat Nato e al fumoso concetto di fedeltà atlantica – vedi i recenti acquisti di TotalEnergies da Sinopec, greggio degli Urali formalmente sanzionato e che invece Parigi ha tramutato in oggetto di shopping strategico con la triangolazione cinese – intendiamo troncare di netto un rapporto storico con quello che sta sempre più emergendo come il vero big player mondiale? A quale prezzo? E con quale prospettiva, in un mondo sempre più bipolare e a rischio di escalation bellica, non fosse altro a livello commerciale e monetario ma anche potenzialmente sul campo? Ma, soprattutto, in quanti stanno diligentemente e in incognito ma in realtà febbrilmente già attendendo il nostro strappo con la Cina, pronti con il cappello del loro export poggiato ai bordi del tavolo per raccogliere quello che su base mensile può sembrare solo briciole del grande pasto ma in realtà può tradursi in moltiplicatore del Pil?
Sul ruolo della stampa italiana in questo enorme e pericolosissimo intrigo internazionale, meglio tacere. Per cossighiana carità di Patria. Ma attenzione, perché solo a far notare certe coincidenze o a porsi qualche interrogativo sul mero bilanciamento costi/benefici, scatta automatico il confinamento nel cono d’ombra del sospetto di intelligenza con il nemico, Predatore. E comunista. Mentre seguendo una pedissequa linea di servilismo alla Nato e al suo socio di maggioranza, interessi nazionali tutelati al 100%. Come confermano le bollette dell’elettricità di maggio.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.