Ieri l’America ha festeggiato il suo “compleanno”, il 4 luglio. Mercati finanziari chiusi, barbecue accesi, bandiere in ogni dove a simboleggiare il patriottismo diffuso e quasi auto-imposto di un Paese con poche radici e mille popoli. Soprattutto, quello celebrato ieri è stato un 4 luglio di campagna elettorale. Entrata di fatto nel vivo e, nonostante i fuochi artificiali dei primi dibattiti in casa Democratica, mai così stanca. L’America arranca. Non lo mostra all’esterno, ovviamente, perché è una dura. Ma dentro di sé sa che la pantomima iniziata nell’autunno del 2016 sta arrivando alla fine.
I dati macro resi noti il giorno precedente ai festeggiamenti hanno parlato chiaro, l’occupazione nel settore delle piccole imprese è in calo e oggi presenta una lettura che non si vedeva dal bimestre febbraio-marzo del 2008. Il treno ancora cammina, ancora si muove, ma sempre più lentamente. E qui occorre mettere un punto fermo, una volta per tutte: non si può e non si deve, pena incorrere in clamorosi svarioni di analisi, comparare la crescita Usa con quella europea. Perché altrimenti scatta automatico l’allestimento di un palco per celebrare la grandezza di Donald Trump di fronte del nanismo economico dell’Ue: sono due mondi diversi. Per fortuna. E un atto lo sta sancendo in maniera netta, in queste ore. Un atto che, per la sua possenza di messaggio, sempre ieri si è guadagnato il titolo di taglio dell’edizione internazionale del Financial Times: l’addio – ampiamente discusso su queste pagine – dell’investment banking Oltreoceano di Deutsche Bank.
E sapete quanto costerà quell’operazione di vera trasformazione e non di ennesimo maquillage all’ex gigante del credito tedesco? Circa 5 miliardi e 20mila posti di lavoro. Così anche la favola bella dei tedeschi e dei loro istituti di credito che godono sempre di “pranzi gratis”, quando noi invece paghiamo i conti del bail-in (per banche mandate in malora da italianissimi management dal prestito allegro o dall’incapacità conclamata, tra l’altro, non per scelte prese a Berlino), forse andrà in pensione. Dire addio ai trading desks non è cosa da poco, perché finora sono stati l’ossatura stessa della profittabilità residua di Deutsche Bank, il cui titolo è passato da 90 a meno di 6 euro per azione nell’arco del post-2008. Anzi, in meno tempo. È una rivoluzione. E, soprattutto, il paradigma finale della diversità ontologica fra Usa ed Europa.
Deutsche Bank era l’unica banca europea, infatti, a essere rimasta operativa a Wall Street. E, soprattutto sull’arbitraggio, era forte. Molto forte. Talmente forte da dare fastidio ai competitor di casa. Talmente forte da collezionare multe a go-go. Tutte sacrosante, per carità. E tutte pagate. Ma anche tutte molto miopi e unidirezionali. Come certe bocciature agli stress test della Fed. Quest’anno, invece, passati di slancio. Casualmente, dopo l’annuncio dell’addio pressoché strutturale proprio all’attività di trading, in gran parte sulle equities. Coincidenze fortuite di mercato, per carità.
Usa e Ue sono mondi differenti che sono chiamati a cooperare e convivere, però con differenze che è meglio rivangare ogni tanto. Soprattutto quando, come oggi, certe sconfitte post-elettorali a livello di nomine in seno a Commissione ed Europarlamento rinfocolano vecchie passioni, come ad esempio il cambio di governance della Bce. Qualcuno, infatti, torna a parlare di necessità di un cambio statutario che la renda come la Fed in tutto e per tutto: prestatore di ultima istanza, garanzia sul debito. E lasciamo stare che quello europeo, a differenza di quello federale Usa, non è mutuato, né mutuabile e che sperare in un passo avanti del genere appare pura utopia, dopo che in nome del salvataggio (interessato, per carità) della baracca, la Germania ha accettato almeno cinque anni di tassi di deposito negativi e conseguente calo costante di profittabilità delle proprie banche (e perdite per i risparmiatori).
La Bce non sarà mai la Fed, per il semplice fatto che l’Ue non è gli Usa. La Grecia non sta alla Francia come l’Oregon sta alla Florida, sia chiaro una volta per tutte. Anzi, nella testa della nuova – tedeschissima e fedelissima della Merkel – presidente della Commissione, c’è questa aspirazione, ovvero arrivare agli Stati Uniti d’Europa. E allora mi chiedo: questo non rappresenta, ad esempio, l’aglio per il vampiro leghista? Cosa vogliono, la botte piena dell’Eurotower in modalità Federal Reserve, ma anche la moglie ubriaca del sovranismo, dell’autarchia, dell’ognuno padrone a casa sua e confini sigillati? Capite da soli che questa prospettiva non funziona, è il classico esempio di 2+2 che dovrebbe fare per magia 5. Perché se da un lato accusi Emma Bonino e +Europa di essere strumenti della propaganda mondialista di George Soros proprio per il loro approccio federalista in materia europea, poi occorrerebbe spiegare alla gente come si concilia una Bce in versione Fed con un insieme di Stati completamente svincolati da ogni progetto di reale armonizzazione fiscale, ad esempio.
Insomma, non puoi volere “modello Visegrad” e “modello Fed” allo stesso tempo. O, quantomeno, non è credibile chiederlo. Perché poi occorre anche essere realisti e decidersi. Nelle ultime ore, in casa 5Stelle è stranamente tornata alla carica e apparentemente con la benedizione dei vertici, la vulgata di uscita dall’euro. O, in alternativa, la totale revisione della moneta unica e dei suoi criteri. Il motivo? Sempre il solito: in un mondo che vede Facebook crearsi la sua valuta dalla sera alla mattina e le criptovalute sempre più prese in considerazione anche dai regolatori ufficiali, una moneta “rigida” come l’euro semplicemente rappresenta un pallone sgonfio. Tutta roba che va forte, che fa presa. Perché risponde con la propaganda a un problema reale: ovvero, il basso livello salariale che ti fa sentire più povero.
Ed ecco la risposta: non sono i salari bassi, è l’euro che non va bene per il cosiddetto Club Med (o Piigs, scegliete voi) e ci impoverisce. Siamo sicuri che sia davvero una Bce in versione Fed a offrire risposte al riguardo? No. Perché quello servirebbe unicamente a raggiungere lo scopo di chi vuole la pappa pronta e l’ufficializzazione del deficit come risposta: eliminare il concetto di rischio al debito sovrano. Ovvero, la trasformazione sic et simpliciter del debito in un qualcosa di positivo, virtuoso e senza costi. Un credito visto da un’altra prospettiva. Ecco cosa vogliono, altro che euro sopravvalutato.
Che l’operazione legata alla moneta unica sia stata gestita frettolosamente e male sono il primo a dirlo, c’era la questione della riunificazione tedesca che chiedeva risposte e ci ha portato sulla strada della fretta. La quale, quasi sempre, mal consiglia. Ma se proprio vogliamo dirla tutta, il problema più grosso non è l’euro, se parliamo di differenziazioni salariali e quindi, a cascata, di costo della vita e potere d’acquisto. Il problema sta nell’aver concesso l’adozione dell’euro a chiunque, a prescindere dai criteri macro e socio-economici di ingresso. E, a mio modesto avviso, ancora più ampiamente parlando, risiede nella follia che è stato l’allargamento a Est dei confini europei. Chi sta operando in maniera sleale verso la nostra economia, facendosi scudo delle salvaguardie offerte dall’essere parte dell’Ue – vedi fondi strutturali a pioggia e saldo positivo fra dare e avere all’Unione – per stimolare una politica di attrazione della delocalizzazione di massa basata su dumping salariale e costi ultra-concorrenziali? La Germania? La Francia? La Finlandia? O i Paesi dell’Est, Ungheria e Polonia in testa, per non parlare di quelli della ex Jugoslavia che confinano con il Friuli-Venezia Giulia?
Chiedetelo ai nostri piccoli e medi imprenditori, se non ci credete. Oltretutto, in molti casi Paesi che basano ulteriormente la loro concorrenza sull’opt-out statuale che gli è stato garantito da un allargamento folle a Est dell’Unione, di fatto il frutto marcio delle pressioni anti-russe di Usa e Nato e non certo per colpa di Donald Trump: hanno la loro moneta. Ungheresi e polacchi, ad esempio, non solo ottengono fondi strutturali che eccedono enormemente il loro contributo netto di conto economico comune all’Ue e con i quali si garantiscono politiche munifiche, ad esempio, in favore della famiglia e della natalità. Ma utilizzano anche zloty e fiorino come arma di ulteriore svalutazione competitiva su realtà sindacali e salariali già terribilmente depresse rispetto agli standard dell’Europa occidentale.
Perché invece di generiche rivoluzioni copernicane in seno alla Bce o rifondazioni in toto della struttura dell’euro non interveniamo, duramente, sul dumping strutturale dei Paesi dell’Est? Sono certo che chi fa impresa, soprattutto in Veneto e Friuli-Venezia Giulia, sarà molto più interessato a questa opzione, rispetto a quella di ottenere una Bce in versione Fed per garantire allo Stato ulteriore indebitamento allegro, magari per una reddito di cittadinanza in grande stile, a livello di ritorno alla Cassa del Mezzogiorno. Perché la Lega, un tempo Nord, non fa questa battaglia, invece di inseguire chimere di Italexit e riforme della governance dell’Eurotower? Chiedete agli imprenditori, piccoli e medi. Perché Fca o Amazon non hanno paura della concorrenza di quei Paesi. Anzi, ci aprono fabbriche e punti di smistamento merci, visto che i diritti sindacali sono pari a zero e le paghe da fame, rispetto a Italia o Francia o Spagna.
Non sarebbe più facile (e improntata alla giustizia sociale) una bella riforma dell’Ue che non permetta più distorsioni strutturali simili, piuttosto che la molto mediatica cazzabubola dell’euro che ci ha resi più poveri, perché creato come un Matrix del vecchio marco tedesco? Signori, dati alla mano, il volume dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania ha registrato un ulteriore aumento nel 2018, raggiungendo il massimo storico di 128,4 miliardi di euro (+5,4% rispetto al 2017). Stando ai dati Istat, lo scorso anno le esportazioni italiane verso la Germania hanno toccato quota 58,1 miliardi di euro (+3,8% rispetto al 2017), mentre il valore delle importazioni si è attestato a 70,3 miliardi di euro (+6,8% rispetto al 2017). La Germania ha confermato così la posizione di primo partner commerciale per l’Italia consolidando anche il netto distacco dal secondo posto, occupato dalla Francia con 85 miliardi di euro: tra i partner della Germania, l’Italia guadagna la quinta posizione scavalcando il Regno Unito e facendo anche registrare uno dei più alti tassi di crescita del volume di interscambio con un +7,8%.
Sono numeri, cifre, statistiche, realtà. Non parole o bieca propaganda sui massimi sistemi, efficacissima in televisione o sui blog, ma, alla fine, totalmente inutile e buona solo per non fare nulla e non crearsi dei nemici. I quali, se davvero ci interessasse un po’ di riequilibrio in seno all’Ue, sono annidati negli europei loro malgrado dell’Est, quelli che io definisco i “beneficiari del peccato originale”, visto che in nome del passato da socialismo reale vengono ricoperti d’oro, purché restino sotto il mantello occidentale e Nato per far piacere agli Usa.
Vogliono restare in Europa? Sono i benvenuti. Ma alle regole degli altri: salariali, sindacali, di protezione sociale e politica. Altrimenti, arrivederci e grazie. In primis, addio ai fondi strutturali a pioggia a fronte di versamenti poco più che simbolici al bilancio comune. Il caso Brexit dovrebbe averci insegnato che prevenire (la demagogia) è meglio che curare: vogliamo davvero tutelare potere d’acquisto e diritto al lavoro in Europa? Interveniamo, subito, contro i manipolatori strutturali. Peccato siano quasi tutti dentro il “Gruppo di Visegrad”, quello a cui fa riferimento la parte che conta del Governo in carica. Altro che Bce come la Fed! Giù la maschera, signori: guardiamo in faccia i problemi e diamogli un nome. E vi assicuro che quell’appellativo, frutto di ogni distorsione e ingiustizia, non sarà “euro”. Il quale certamente non è perfetto, ma fatevi una domanda: per chi in realtà non vuole cambiare nulla e cerca solo potere e rendita di posizione senza rischi, è più comodo intavolare una battaglia epocale e tutta politica sulla riforma dell’euro, roba che potrebbe richiedere decenni senza arrivare a nulla, oppure una battaglia trasversale in seno al nucleo forte e fondatore dell’Ue, affinché venga tolto il diritto di voto (e, quindi, di reciproca auto-tutela attraverso l’istituto dl veto) a quei Paesi che violino gli standard minimi di concorrenza e tutele?
Rompiamo tanto le scatole alla Cina, ci stracciamo le vesti per le fabbriche di scarpe da ginnastica dal nome roboante piazzata nel Far East per pagare 2 dollari al mese, ma ne abbiamo, in sedicesimi, parecchie ai nostri confini e dentro la nostra casa comune. Sveglia gente, cambiare si può. Ma lo si deve volere.