Alla fine, il tabù è saltato: la parola recessione ha fatto ufficialmente irruzione nei media mainstream, persino nelle edizione delle 20 dei tg. Alleluja! D’altronde, c’è da capirli: fino all’ultimo dato sul Pil statunitense, troppo difficile da scomporre in sottocategorie per capirne la fragilità strutturale, gridavano all’America che scoppia di salute, alla Cina che comunque cresce del 5%, al miracolo di indici azionari che non conoscono pausa nella loro corsa verso nuovi record quotidiani. E poi, puff: prima la Fed mette la retromarcia sui tassi e un bel giorno, addirittura, si svegliano e si ritrovano con i tassi Usa invertiti e la parolina magica che diviene realtà. Non deve essere facile, lo ammetto. Ma tranquilli, conoscendo la stampa italiana, qualche giorno e l’arrampicata libera sui vetri avrà inizio.



E ora, cosa si fa? Formalmente, nulla. Si attende soltanto che la Fed si muova, dopo l’ennesimo tweet da stalker di Donald Trump contro Jerome Powell. Certo, c’è un problema, se si vuole essere seri: se la prospettiva è quella di una recessione in arrivo, l’idea di un nuovo Qe non può basarsi su un taglio spot ogni tanto, magari anche da 50 punti base. Tocca stimolare in maniera sistemica. Bene, sapete storicamente a quanti punti base di taglio sono corrisposti i cicli di espansione valutaria della Federal Reserve per contrastare una recessione e farne uscire l’economia? La media è di 550 punti base. Ovvia conseguenza, il fatto che stante il livello attuale dei tassi Usa, o ci si accontenta della metà, di fatto facendo più danno che utile (poiché si innescherebbe una reazione pavloviana di breve termine degli indici azionari e nulla più, di fatto facendo gonfiare ulteriormente la bolla) oppure la matematica ci dice che nel corso dei trimestri si scenderà sotto zero. E non di poco.



La recessione, però, non è ancora alle porte, a detta di qualcuno. Poiché, storicamente, l’inversione dei tassi Usa verificatasi mercoledì, l’anticipa di circa 12 mesi. Quindi, c’è tempo per agire e studiare una mossa di contrasto che ne indebolisca la portata, magari evitando quindi di dover mettere in campo tutto l’arsenale passato di 550 punti base di taglio. Sicuri? Balle, vi stanno raccontando balle per l’ennesima volta. E sapete qual è la più grande? Il fatto che questa nuova crisi alle porte sia frutto della guerra commerciale Usa-Cina. Quello, come vi dico da sempre, è stato solo il detonatore. Non a caso, schiacciato volontariamente da Donald Trump, quando non vi era alcun bisogno di farlo. A freddo. È stata una scelta, quella sì anticipatoria: ma non della recessione o della fine del ciclo o di un bull market ridicolo durato 12 anni, bensì del voto presidenziale del 2020. Di cui occorreva preparare il palcoscenico per bene, signori miei. Perché sarà decisamente importante.



E quanto accaduto in un carcere di Manhattan pochi giorni fa, ne è il proxy più tragico, ma efficace. Dai tempi di Roberto Calvi e della sua strana abitudine di fare la manicure prima di impiccarsi sotto un ponte nella City, non vedevo un suicidio così originale. Certi poteri, piaccia o meno, sono come i cavi dell’alta tensione: guai anche solo a sfiorarli. Qual è il problema, però? Perché indubbiamente qualcosa si è rotto, se si passa da una striscia di risultati record degli indici a tonfi spettacolari come quello registrato mercoledì. Il quale, oltretutto, smentisce implicitamente la retorica della guerra commerciale come base di ogni criticità. Certo, l’inversione dei tassi fra titoli a 2 e 10 anni e soprattutto il Treasury a 30 anni sotto il 2% di rendimento per la prima volta in assoluto sono cosiddetti bad omen, segnali da brivido, ma solo 24 ore prima del loro palesarsi sulla scena, Donald Trump aveva compiuto la più grande apertura mai vista verso Pechino e una risoluzione del conflitto dalla sua esplosione, rinviando le nuove tariffe al 15 dicembre invece che al 1 settembre. La scusa? Non turbare lo shopping natalizio degli americani.

Eppure, i mercati – gli stessi che stando alla vulgata prezzerebbero il conflitto con il Dragone come massimo motivo di allarme – hanno digerito quella notizia come fosse una mentina: qualcosa non torna. Almeno per me, magari qualche testata e analista più autorevole ha certamente una spiegazione credibile. Sapete perché Donald Trump ha dovuto compiere quella mossa, di fatto una clamorosa sconfessione della sua linea dura e della sua retorica in base alla quale la guerra commerciale sta facendo il solletico all’economia Usa? Non solo per lo yuan debole. Ce lo mostra questo grafico: perché l’inflazione reale, quella tracciata dal carrello medio della spesa da Walmart, la più grande catena di distribuzione americana, a luglio è salita del 5,2%.

Gli americani cominciano a patire realmente il caro vita e, cosa più grave, cominciano a rendersi conto che il Presidente sovranista in realtà non ha fatto nulla per il loro potere d’acquisto, nonostante le promesse elettorali. Estremamente sgradevole, a poco più di un anno dal voto e con la campagna elettorale che scalda i motori. E l’altro grande baluardo della retorica trumpiana, ovvero il fatto che la Cina per sopravvivere al conflitto commerciale starebbe stampando moneta come non mai, stimolando la sua economia? Balle, il dato del Total Social Financing di luglio è stato il secondo più basso da inizio anno. Motivo? Anche in questo caso, l’inflazione reale. La quale, in Cina, sta colpendo i prodotti alimentari, in particolare frutta e verdura e carne di maiale, quest’ultima piagata dall’epidemia di febbre suina che sta letteralmente decimando gli allevamenti.

Il rischio è quindi quello che se la Pboc si mette a stimolare troppo, quell’aumento già attorno al 9% vada alle stelle: e con Hong Kong sulla soglia dell’invasione, aprire un fronte di malcontento sociale interno è l’ultimo dei desideri di Xi Jinping. Qual è il problema ulteriore, però? Ce lo mostra questo altro grafico: l’impulso creditizio globale della Cina, il balsamo di yuan destinati a diventare assets denominati in dollari che garantiscono liquidità al casinò globale di indici e derivati, sta calando sotto la soglia di allarme reale.

Insomma, quella che viene spacciata come una crisi legata a un conflitto commerciale che fiacca economie a fine ciclo è, in realtà, l’ennesima, enorme crisi di liquidità di un sistema che doveva imparare la lezione del 2008 e che, invece, ha fatto di peggio negli ultimi undici anni. E questo ultimo grafico ne è la conferma più spietata e chiara: il mercato ha fame di denaro facile e a costo zero, fame vera. Fame tale da vedere la Cina dover salvare, attraverso nazionalizzazioni di emergenza, tre banche da maggio a oggi (Baoshang Bank, Bank of Jinzhou e in ultimo, lo scorso weekend, Hengfeng Bank).

E i mercati Usa? Semplice, i soldi per i buybacks di massa stanno finendo. O, meglio, stanno finendo quelli garantiti prima dagli acquisti della Fed e poi dal rimpatrio a costo zero del capitali off-shore voluto fortemente (e a deficit) da Donald Trump con lo shock fiscale della scorsa primavera. Ora il costo di quei riacquisti di massa di propri titoli che hanno mantenuto finora gli indici a le valutazioni a livelli record sta salendo, troppo. Quindi, o qualcuno fa in modo che torni a essere non solo accessibile ma anche favorevole (visto che i buybacks garantiscono artificialmente alte valutazioni, quindi dividendi e bonus) oppure lo schema Ponzi rischia di saltare, nella maniera più rumoroso e devastante possibile. Ecco spiegati i crolli inspiegabili e i rialzi euforici, tutto nell’arco di una giornata: dipende tutto da short-squeeze o margin call, ovvero dalla necessità forzata di chiudere posizioni a tutti i costi o da vendite indiscriminate per paura di assenza di domanda futura.

La ragione reale della crisi attuale è tutta finanziaria, come nel 2008. Si è voluto, per decenza, utilizzare il maquillage della guerra commerciale solo per non dover ammettere che siamo daccapo con l’azzardo morale e le scommesse sul nulla, ovvero sulla ricchezza da Monopoli delle Banche centrali. La realtà è questa signori, prendetene atto. E per uscirne, più di qualcuno dovrà salire – con le buone o con le cattive – sull’altare dei sacrifici votivi.