L’incremento dei prezzi alla produzione, dei prodotti energetici e le preoccupazione sulla disponibilità di beni sono il tema del giorno. Tra le soluzioni che vengono proposte per “risolvere” il problema se ne sta facendo traccia una che merita di essere analizzata. La soluzione parte da uno scenario che ogni giorno acquisisce elementi nuovi. La guerra commerciale, spesso mascherata, comporta problemi sulle catene di fornitura globale che sono alla base di una struttura di produzione pensata per un mondo con tensioni geopolitiche minime.



Nessuno ci guadagna sul breve periodo, ma alcuni sistemi pare abbiano accettato di subire danni oggi per conseguire benefici di lungo termine maggiori. Chi ha più delocalizzato le produzioni negli ultimi 30 anni è più fragile e viceversa. La ristrutturazione delle catene di fornitura globali è un processo lungo e costoso e quindi bisogna mettere in conto che per diversi anni ci saranno problemi di approvvigionamento; a ristentirne sarà la disponibilità dei prodotti per il consumatore. Nelle ultime settimane gli appelli a fare gli acquisti di Natale con largo anticipo, per esempio quelli del vice-presidente americano Harris, hanno fatto intravedere la questione a un pubblico ampio. 



In un contesto di politiche monetarie espansive i colli di bottiglia nelle catene di fornitura globali hanno effetti dirompenti sui prezzi; le tensioni sulle forniture, si pensi alle code ai porti, producono un circolo vizioso. Pensiamo a un’autostrada congestionata in cui continuano a entrare macchine da ogni svincolo. La coda si allunga e i problemi si moltiplicano. Questa è la situazione di cui si occupano le principali banche d’affari. Tra queste, negli ultimi giorni Citi ha sostanzialmente proposto come soluzione la soppressione della domanda per fermare la spirale che altrimenti continuerebbe ad autoalimentarsi. Far rallentare la domanda, questa dovrebbe essere la tesi, toglie tensioni alle catene di fornitura riequilbria domanda e offerta e “risolve” il problema. Si suppone che con l’apertura di questa fase si speri di rendere più razionale il flusso dei beni. 



Non è la prima volta che si sente questa soluzione; il vicepresidente esecutivo di Maersk, Morten Engelstoft, a metà settembre ha avanzato la stessa proposta dalle colonne del Financial Times. Adeguare l’offerta è un processo lungo e faticoso e quindi nel frattempo bisogna distruggere la domanda. Non è chiaro con che mezzi si possa raggiungere l’obiettivo, se si pensi a un rialzo dei tassi o ad altro. Il problema di questa soluzione è che è politicamente molto allettante; solleva dalla sfida di creare le condizioni economiche, legislative e burocratiche per una reindustrializzazione e in un certo senso scarica tutto il costo sulla classe media che dovrà sacrificare la “domanda”. Reindustrializzare significa lasciare libere le imprese, accantonare soluzioni ideologiche sulla transizione energetica e ribaltare l’approccio sull’imposizione fiscale e molto altro. È molto più semplice imporre la distruzione della domanda, dall’alto al basso, incassando i dividendi politici del controllo e continuare in un solco che ha portato molti Paesi europei e non solo a una deindustrializzzione paurosa perché tanto ci pensava la Cina. 

La distruzione della domanda si traduce in linguaggio colloquiale con impoverimento e tutto quello che questo si porta dietro in termini politici. Il fatto che l’opzione appartenga a un dibattito “normale” è di per sé preoccupante.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI