Ultimo appuntamento di una settimana che è stata davvero complessa. E che sembra destinata a operare da apripista verso il countdown definitivo per il nostro Paese e, temo, per la tenuta stessa dell’esecutivo: il Vertice europeo dei capi di Stato e di governo del 23 aprile. Lì, con ogni probabilità, si capirà qualcosa di più rispetto all’intenzione di utilizzare o meno il Mes. Sia da parte di Roma che degli altri Paesi, una sorta di prova del nove – a detta di molti – per stanare eventuali imboscate postume. Per capirci, se solo l’Italia chiedesse l’attivazione del fondo salva-Stati, a fronte di un’Unione piagata quasi nella sua interezza dalla pandemia, allora potrebbe davvero esserci un’agenda parallela in elaborazione. Come, d’altronde, ha lasciato intendere ieri il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, il quale ha dichiarato che “dopo la crisi, l’Unione dovrà focalizzarsi maggiormente sulla riduzione del debito”. Di fatto, un messaggio nemmeno troppo in codice.



Signori, è inutile che io vi ripeta per l’ennesima volta quale sia il mio pensiero: l’Italia non ha alternative, se non quella di una dieta forzata. Siamo arrivati al limite della sostenibilità, quindi è chiaro che qualsiasi decisione venga presa avrà come sbocco naturale un percorso di normalizzazione dei nostri conti pubblici. Di fatto, ciò che avremmo dovuto fare seriamente dopo lo scossone del 2011 e che, invece, abbiamo bellamente bypassato, fra mancette elettorali, provvedimenti spot e danze macabre di maggioranze variabili. Ora, pare davvero che il tempo dei rinvii sia terminato. E non perché lo dica Jens Weidmann, bensì perché lo dice il mondo folle in cui siamo precipitati.



Vi faccio qualche esempio, molto rapido. Guardate questo grafico: cumulativamente, i giovedì delle ultime quattro settimane hanno visto l’indice Standard&Poor’s 500 guadagnare 255,4 punti. Nel medesimo arco temporale, 22,03 milioni di americani hanno fatto domanda iniziale di sussidio di disoccupazione. A ogni punto guadagnato da Wall Street, grazie ai soldi stampati dal nulla dalla Fed, sono corrisposti 86.276 posti di lavoro persi.

Inutile cercare tante spiegazioni a una dinamica folle e fuori da ogni logica come questa: più c’è sangue nelle strade, più il cosiddetto mercato festeggia nuovo stimolo in arrivo. Ora guardate questi altri due grafici, i quali fanno riferimento all’altro grande player mondiale, quella Cina che ieri ha comunicato il dato del Pil nel primo trimestre: -6,8% su base annua contro le attese di -6% del consensus sondato da Bloomberg, il peggior risultato dal 1992. Le Borse sono crollate? No. A mezzogiorno, Milano viaggiava a +2,75%. Mes o non Mes.



Il secondo grafico, da questo punto di vista, è ancora più interessante. Ci mostra la reazione di indice Chinext (linea gialla), PMI manifatturiero (linea verde) e Macro Surprise Index (linea rossa) del Dragone all’impatto da coronavirus sull’economia del Paese. Il punto di snodo, quello fondamentale, è messo in evidenza dall’ovale: ovvero, la biforcazione e la rapidità di reazione. La cosiddetta ripresa v-shaped degli indicatori macro, la quale appare quantomeno sospetta in ambito di produzione manifatturiera, mentre la Borsa ha limitato la profondità del calo.

Possiamo fidarci di letture simili? Che tipo di precedente crea per le prospettive di ripartenza e crescita mondiali un dato come quello del Pil comunicato ieri, al netto di queste dinamiche? Quale occhio prospettico ci offre? Nessuno, di fatto. Tutto dipende, oramai, dalle Banche centrali. Punto. Il resto è totalmente sconnesso e senza reale impatto. Non a caso, l’onorevole Claudio Borghi in un suo tweet è stato molto onesto: a suo dire, Mes, Bei o Eurobonds sono la stessa risposta insufficiente a una medesima necessità stringente. Serve soltanto l’ingresso in campo della Bce come prestatore di ultima istanza, in modalità Fed. Punto.

L’idea che pervade la prima forza politica di opposizione del nostro Paese è questa, pare senza mediazioni possibili. E in punta di realismo, difficile eccepire. Se l’America può permettersi dinamiche folli come quelle rappresentate dal primo grafico e la Cina vendere al mondo panzane confezionate sotto forma di letture macro ufficiali, forte com’è di una Pboc tornata ufficialmente e in grande stile sul campo della manipolazione, perché l’Europa dovrebbe esimersi dal salire sul treno in corsa della stamperia globale?

Lega, Fratelli d’Italia ma anche M5S hanno un’idea chiara di quale debba essere la via d’uscita dalla crisi: una Bce riformata e designata sul modello della mitica tipografia Lo Turco de La banda degli onesti. Al posto della Pe-da-li-na della Bordini e Stocchetti di Peppino De Filippo, capace di sfornare cento copie al minuto e di far aguzzare l’ingegno monetarista di Totò, un’Eurotower che ciclostili euro dal nulla a getto continuo, salvo poi paracadutarli a fondo perso sulle economie dei vari Stati membri, in un tripudio di indebitamento collettivo. Una colossale sbornia, ecco come vogliono superare la crisi. Anzi, come vogliono piegarla al loro interesse politico. Cioè, scaricare sull’Europa, grazie all’alibi emotivo del coronavirus, le incapacità di un ventennio di scelte politiche tutte interne. Di destra come di sinistra come pentastellate.

C’è però un problema, anzi due. Di fatto, interconnessi. La Germania non accetterà mai una svolta in stile Fed o Bank of Japan. Mai, a costo di essere lei a uscire dall’euro. Le parole di Jens Weidmann, in tal senso, sono state poche ma puntuali. E chiarissime. È una questione culturale, prima che economica e monetaria: debito e colpa, in tedesco, sono la stessa parola. E la scottatura di Weimar, dell’iper-inflazione e di ciò che ne conseguì storicamente, sono uno stigma che nessuno può pensare di poter ignorare: se si vuole aver a che fare con Berlino, occorre sempre tenere conto della questione della colpa, per citare Karl Jaspers. Altrimenti, due strade: o si ha il coraggio di puntare dritti all’Italexit o si crea un fronte interno all’eurozona così forte da costringere a farlo la Germania. Tertium non datur, i riformismi non si applicano ai dna dei popoli e delle nazioni. Ed ecco il primo problema.

Il secondo sta in nuce, ovvero il fatto che l’Italia viene rappresentata politicamente, sia all’interno che all’esterno, da un esecutivo di fatto sfiduciato in fieri dall’ombra del “cavaliere bianco” incombente, quel Mario Draghi oramai non più evocato come ipotesi ma come certezza in attesa di divenire tale. Una sorta di Godot della rinascita, la cui attesa sta divenendo ogni giorno più snervante. E pericolosa. Perché tutto può permettersi questo Paese, persino tesi strampalate come quelle di Borghi e Paragone sull’helicopter money, ma non l’incertezza sulla guida politica. Il Quirinale lo sa. Ed è preoccupato. Molto. Perché se davvero il 23 aprile, per calcolo o per scelta, l’Italia andrà allo scontro frontale sul Mes, bocciando aprioristicamente ogni discussione al riguardo, allora dovremmo appuntarci sul diario un’altra data. Quella del 5 maggio, simbolica ed evocativa in sé: quel giorno la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe sarà chiamata a esprimersi sul Qe.

Lo farà? Rimanderà? Lo promuoverà o boccerà, in punta di legge che regola lo Stato? Le parole di Jens Weidmann, lette attraverso quest’ultima lente d’ingrandimento, appaiono ancora più perentorie, ancorché pronunciate con il sorriso sulle labbra di chi offre mediazione e solidarietà. Abbiamo di fronte a noi una strada senza uscita, prendiamone atto. E la colpa è di chi ha portato la ratio debito/Pil a superare il 130%, entrando di diritto nell’area della insostenibilità strutturale, a fronte di un Pil esangue. Difficile addossarla ai tedeschi, a meno di non voler strappare qualche like sui social e qualche voto facile in più alle prossime elezioni. Leviamoci dalla testa una Bce in versione Fed, lo ribadisco per l’ennesima volta. E con altrettanta chiarezza, vi invito a ringraziare il Signore per questa esenzione giocoforza dell’Europa dalla follia collettiva del monetarismo fuori controllo. E non perché lo abbia deciso la Germania, bensì perché con una Banca centrale che stampa denaro dal nulla e lo regala a fondo perso, il default del nostro Paese – stante la media della sua classe politica – subirebbe un’accelerazione d’approccio pressoché immediata. Qualcuno intervenga su Giuseppe Conte, prima che sia davvero tardi.