Nel mio articolo di venerdì sottolineavo come i rendimenti obbligazionari statunitensi stiano continuando a salire, sospinti da un combinato congiunto di ottimismo basato su arrivo del vaccino anti-Covid e ripresa del dialogo fra Repubblicani e Democratici per un rinnovo delle misure di stimolo federale. La questione può apparire meramente tecnica ma non lo è: sta alla base di ogni ragionamento sul destino di un mercato che, giorno dopo giorno, appare non solo scollegato in maniera sempre più palese dai fondamentali, ma, soprattutto, totalmente dipendente da valutazioni drogate dalla liquidità delle Banche centrali. Quei rendimenti, infatti, sovrintendono alle iscrizioni a bilancio degli assets: miliardi e miliardi di securities che nell’arco di una notte posso passare dallo status di carta dormiente a quello di bombe a orologeria. Il cui timer, nemmeno a dirlo, è sincronizzato con quei tassi. E oggi, cari lettori, la situazione sta diventando a dir poco preoccupante.
Come mostrano questi grafici siamo ormai ben oltre il ridicolo: grazie alla Fed (e solo alla Fed), non soltanto il rendimento medio dei bond corporate Usa con rating da investment grade oggi è passato in negativo, ma, molto peggio, quello del cosiddetto junk debt, il debito spazzatura, oggi prezza il suo minimo storico assoluto: 4,45% dal 5,52% di solo un mese fa e dall’11,69% di marzo! Praticamente, siamo di fronte all’istituzionalizzazione dell’azzardo morale come investimento alternativo di massa, come last resort generalizzata in un mondo senza più profitto, né premio di rischio.
La ragione? Semplice. Se un bond aziendale con rating investment grade non solo non mi garantisce nulla, ma, addirittura, mi impone un prezzo da pagare per l’onore di detenerlo, è chiaro che l’investitore medio varca il Rubicone del pericolo e si inoltre nella giungla delle carta più rischiosa, alla ricerca di un minimo di guadagno. È sempre stato così, come principio, peccato che ora balzino agli occhi due differenze macroscopiche. Primo, il calo di quei rendimenti medi che fanno riferimento a obbligazioni formalmente da maneggiare con i guanti di amianto. Secondo, il numero di disperati pronti ad acquistare quella carta dalla quale non più tardi di un anno fa si sarebbero tenuti a distanza come da una tigre che circola all’interno di una gabbia con la porta aperta. Azzardo morale come unica stella polare, in parole povere. Alla sua massima potenza.
Ma non basta. Perché questo altro grafico ci mostra un fenomeno nuovo, emerso proprio a ridosso dell’ultima seduta di contrattazioni: dopo le zombie firms, infatti, in America oggi imperversa una nuova fattispecie di mina vagante finanziaria, sempre declinata in versione horror. Ecco a voi i negative EBITDA vampires, ovvero aziende che perdono soldi ancor prima di pagare debiti e tasse e che, nemmeno a dirlo, possono vantare un rating di credito a livello junk, spesso da intendere come passo obbligato da parte di società di revisione nel disperato tentativo di mantenere il minimo sindacale di credibilità, dopo aver garantito alle medesime aziende una vita da eterne fallen angels.
La crisi Covid ha ovviamente ampliato il novero di quelle securities, ma, come confermato da Bloomberg, fra il secondo e terzo trimestre di quest’anno il loro numero è praticamente raddoppiato, passando da 26 a 47 nel contesto generale di 600 aziende tracciato nel Barclays High Yield Corporation Index. E non si tratta di oscure PMI cadute in disgrazia esiziale a causa del lockdown, dopo una vita di bilanci solidissimi, bensì di nomi come Delta e United Airlines o Royal Caribbean. Ovvero, grandi nomi legati al comparto dei trasporti e del turismo, letteralmente schiantati dal blocco delle attività, ma che, di partenza, già scontavano uno status molto prossimo a quello della zombie firm: di fatto, il virus ha paradossalmente operato come il pesce spazzino degli acquari, facendo emergere i soggetti incapaci di stare sul mercato senza il continuo e costante aiuto della Fed e dei suoi tassi a zero.
Ora il vulnus pare essere stato impresso con ancora maggiore incisività, aprendo la porta a un universo intero di soggetti che resta in vita soltanto grazie a condizioni da pianificazione centrale di stampo sovietico, altro che liberismo selvaggio. Ma se l’universo obbligazionario ormai appare nel pieno di un processo prodromico di lost decade, quando finalmente i residui di price discovery metteranno all’angolo soggetti il cui unico sbocco dovrebbe essere quello della Chapter 11 e non dell’emissioni continua di debito, quello azionario certamente non sta meglio. Anzi.
Questo grafico mostra infatti come in base al criterio di valutazione della CAPE ratio, riferito cioè agli utili degli ultimi dieci anni e non quelli attuali, oggi il mercato azionario vede le proprie valutazioni aver superato tutti i precedenti primati dal 1929 a oggi, mantenendo come unica eccezione (ancora per poco), il periodo della prima bolla dot.com del 1999-2000.
Insomma, la ratio di utile per azione aggiustata al ciclo oggi è da record assoluto. La ragione? Certamente non legata ai fondamentali. Bensì a un combinato congiunto che, di fatto, è in realtà un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, uno schema Ponzi: i buybacks gonfiano l’espansione dei multipli, la quale a sua volta rende necessari altri buybacks per mantenere alte le quotazioni e abbassare il flottante. Così, in maniera circolare e continua, si è arrivati al livello odierno. Il motore immobile? Nemmeno a dirlo, la Fed. Il rischio? Strettamente correlato alla dinamica iniziale dei tassi di interesse. Come in quel caso, infatti, la domanda da porsi è una sola: in un mercato equities pesantemente sbilanciato sul lato delle mega-caps legate alla crescita, quale dinamica si innescherà se davvero il vaccino porterà a una normalizzazione degli outlook e quindi a un rimbalzo dai titoli ciclici? Quelle azioni riusciranno a mantenere il loro attuale valore da record in un mondo relativamente normale oppure patiranno anche loro la sindrome da great rotation innescata in prima battuta dalla vittoria di Joe Biden, capace di stroncare le velleità di corsa verso il cielo del Nasdaq a favore, ad esempio, di una vecchia guardia come gli energetici?
Ecco il mercato di oggi, sia esso obbligazionario che azionario. Un trapezista che cammina su un filo sempre più logorato e sottile. E senza rete di protezione sotto di lui, se non quella – ritenuta indistruttibile e capace di eliminare il concetto stesso di hedging da ogni strategia di trading – tutta politica della Fed. Tutti avvisati, qualcosa occorrerà concedere alla realtà. Prima o poi. Attenzione a non restarci sotto.
P.S. A proposito di rating. Venerdì sera, a mercati chiusi, Fitch ha confermato quello creditizio del’Italia all’ultimo livello dell’investment grade, BBB-, con outlook stabile. Questo nonostante la stessa agenzia, nella nota che accompagnava la decisione, parlasse chiaramente di “impatto significativo della pandemia sui conti del Paese”. E ancora. Per Fitch, quest’anno la ratio deficit/Pil italiana sarà all’11%, seguita da un calo all’8% nel 2021 e al 6,6% nel 2022. Sapete quale ratio media associa normalmente Fitch a un rating BBB, relativamente al deficit di budget sul prodotto interno lordo? Il 2,3%. Ora, appare assolutamente normale che stante il caos pandemico globale anche le società di rating abbiano ammorbidito i loro standard valutativi, ma fra il 2,3% e l’11% diciamo che il tasso di “moratoria” concesso appare decisamente ampio, soprattutto alla luce degli altri indicatori macro del nostro Paese. E calcolando ex ante, come dovrebbe fare una società di rating, l’impatto che avrà la fine del blocco dei licenziamenti prevista per il prossimo mese di marzo.
Domanda a chi strepita contro l’Europa e il Mes: pensate che un giudizio simile da parte di un soggetto di Oltreoceano non sia frutto di un do ut des già concordato su qualcosa di molto strategico? E di grazia, se fosse così, perché nessuno minaccia di incatenarsi a palazzo Chigi pur di conoscere e far conoscere al popolo i particolari di quel presunto “scambio”, materia che deve essere discussa nelle aule parlamentari? Capisco che la retorica degli “schiavi di Berlino” sia molto efficace in questi giorni di populismo all’arrembaggio, ma una sessantina di anni come schiavi di Washington dovrebbero averci insegnato qualcosa, a livello di sovranità calpestata. O sbaglio?