Ogni promessa è debito. Ho preso una cantonata. Ero certo che il Brexit non sarebbe avvenuto, invece da oggi – esattamente mentre leggete queste righe – la Gran Bretagna non fa più ufficialmente parte dell’Ue. Mi cospargo il capo di cenere, ho sottostimato la capacità di persuasione di Boris Johnson, il grado di fragilità istituzionale di Westminster e il tasso di esasperazione di quello che – piaccia o meno – pare rappresentare ancora il sentire della maggioranza dei britannici. Mea culpa, ho toppato. Detto questo, ora ci sono cose ben più importanti dell’addio di un Paese che è sempre stato il cavallo di Troia degli Usa in seno all’Europa, forte di un rebate sul dare/avere strappato da Margaret Thatcher a Fontainebleu e soprattutto di un’indipendenza monetaria che lo rendeva, di fatto, alieno. Sono voluti uscire, hanno votato in tal senso, quindi giusto che escano. Statemi bene.



Ora, però, asciugate le lacrime e archiviate le patetiche scenette da ultimo giorno di scuola all’Europarlamento, trattiamoli per quello che sono voluti diventare: avversari, altro che partner. E cerchiamo di strappare a Londra, come Europa, ogni possibile arma di ricatto ancora nelle loro mani: risolviamo, a colpi di imposizioni e ricatti se necessario (in tal senso, i confini irlandesi e i fantasmi dei troubles nell’Ulster rappresentano uno straordinario strumento di pressione), l’annosa e dirimente questione della City come clearing house di tutti i contratti derivati euro-dollaro, spolpiamo tutto ciò che c’è da spolpare dal loro ex status di hub finanziario, creiamo insomma le condizioni perché, da ora in poi, debbano chiedere “scusi” e “permesso” per ogni cosa, al netto della loro spocchia tardo-imperiale degna di miglior causa. E non per ripicca, per il disturbo arrecatoci. Perché un anno e mezzo di negoziati sull’addio di Londra hanno garantito a chi voleva fiaccare l’Ue un diversivo straordinario: un po’ come lo è stato l’Isis, un po’ come lo è oggi il coronavirus. L’Europa si dimentichi del Regno Unito da oggi, da subito. Non esistono, sono dei vicini la cui utilità commerciale è pari a quella della sola provincia di Treviso o poco più: l’Europa, quella vera, sta altrove.



E il problema è proprio questo. In un momento simile, occorrerebbe capire che si è sotto attacco. E, soprattutto, avere istituzioni all’altezza del compito. E con chiara predisposizione alla lotta. Invece, scusate ma mi tocca tornare sull’argomento di qualche settimana fa: al netto di una Commissione incapace di andare oltre a un programma politico degno della scaletta di una puntata di Linea verde e guidata da una ex ministro della Difesa tedesco (ruolo che dal crollo del Muro in poi, notoriamente, significa adesione acritica e quasi ideale ai desiderata del Dipartimento di Stato Usa), abbiamo una Bce totalmente inerme di fronte a un momento di contingenza quasi senza precedenti.



La Cina, come vi ho spiegato ieri, sta preparandosi a una mega-manovra di stimolo, giustificata agli occhi del mondo dell’emergenza coronavirus, ma la realtà ormai è palese: lo schema Ponzi, il castello di carte della crescita record del Dragone è stato giocoforza disvelato, ormai. Prima dalla pantomima sulla guerra commerciale con gli Usa, ora dall’epidemia più strana – per modalità, tempistica e mediaticità – del mondo. Gli Usa stanno già oggi stimolando il proprio sistema finanziario come se non ci fosse un domani e la Fed, al netto dei tassi benchmark che ormai non contano più nulla, continua a iniettare doping intramuscolo a banche e fondi. E l’Europa, come risponde? Una bella review sul tasso obiettivo dell’inflazione. Roba da cineforum sui capolavori russi del ragionier Fantozzi, il corrispettivo politico e operativo della lucidatura delle maniglie sul Titanic o di una pistola ad acqua a Notre Dame. Ma si sa, molto sta nella leadership. Anzi, quasi tutto. E quando a capo della Banca centrale europea metti l’ex numero uno del Fmi hai già scelto di perdere e optare per il male minore come conseguenza della sconfitta. E della colonizzazione.

Perché signori, ragionate. L’eurozona è già oggi in plateale stagnazione economica e non si vedono certo all’orizzonte praterie di ripresa. E lo stesso – anzi peggio, visto il loro carico debitorio e di esposizione alle leva – vale per Usa e Cina. Le quali però stanno facendo il pieno di liquidità fin da ora, pronte a lanciarsi in quella che è la loro finalità primaria: spolpare l’eurozona dai suoi gioielli. Industriali, manifatturieri, tech, chimici, infrastrutturali. Tutto. Quando qui la contrazione della crescita arriverà al punto di non ritorno, state certi che moltissime primarie aziende del continente subiranno le sempre più pressanti avanches di presunti e molto interessati “cavalieri bianchi” del Dragone e d’Oltreoceano, carichi di quel cash che qui manca. E pronti a scalare, senza troppa attenzione ai formalismi di rito e alle buone maniere.

Sapete la scorsa settimana cosa mi aveva portato a scrivere quell’attacco contro Christine Lagarde? Questo grafico, il quale ci mostra come in gennaio l’indice manifatturiero PMI Output dell’eurozona fosse salito, dopo 12 mesi continui di contrazione, da 46.1 a 47.5. Poca roba, solo un segnale di stabilizzazione ma quantomeno un punto di partenza, uno stop al continuo calo. Insomma, l’Ue – con tutti i suoi difetti innegabili – ha comunque un grado di competitività, tecnologia e qualità industriale che gli americani non hanno. Della Cina da sovra-produzione come unico driver, meglio nemmeno parlare.

Se c’era quindi un momento in cui era necessario forzare la mano, espandendo il programma di Qe o ricalibrandolo con focus sul comparto corporate – al fine di garantire liquidità extra-bancaria a quelle aziende che avevano appena messo a segno il timido rimbalzo da green shots – era proprio adesso. Ora. Non domani o dopodomani, ora. Quindi, all’ultimo board della Bce, quello di due settimane fa. E cosa è accaduto, invece? Su cosa ha focalizzato il suo interesse Christine Lagarde? Sull’agenda green e sulla review degli obiettivi inflazionistici. Ovvero, un’idiozia sesquipedale a leva che ha come ideologo e ispiratore nemmeno troppo occulto una studentessa svedese di 17 anni e una disquisizione sul sesso degli angeli che normalmente un board di normodotati rimanderebbe a quando la crescita del blocco europeo sia almeno del 3%, non alla soglie della recessione.

Capite perché ho scritto, chiaro e tondo, che occorre sperare in una rivolta della Bundesbank in seno all’Eurotower, un ammutinamento in piena regola, che metta alla porta il prima possibile la donna che ha gestito due capolavori come il “salvataggio” della Grecia e il prestito record all’Argentina, il quale ha permesso a quel Paese di rimandare ancora i propri obblighi di servizio del debito in nome di un do ut des che temo farà la gioia solo di Washington? E lo ribadisco. Perché a fronte della situazione attuale, della chiara contingenza di riposizionamento geo-finanziario di Usa e Cina, operare in punta di priorità come quelle imposte dalla Lagarde al Consiglio della Bce può significare solo due cose: essere un’incapace assoluta o prestare il fianco a interessi e interlocutori altri. E non so cosa sia peggio.

Signori, siamo in guerra. Lo hanno capito tutti, tranne gli europei. Fosse arrivata l’ora di un risveglio generale e del proverbiale momento in cui ci si toglie i guantoni e si picchia a mani nude? So che scatenerò le ire funeste di molti, ma l’unica speranza, al momento, arriva ancora dalla Germania, dal suo istinto mitteleuropeo di sopravvivenza. Altrove, solo mediocri. O quinte colonne.