Al netto della retorica – ora immagino destinata a finire per un po’ nella soffitta oscura dell’informazione, a causa dell’emergenza rappresentata da quella sesquipedale pagliacciata dell’impeachment -, attenzione a cosa sta per accadere in Cina. Anzi, a quanto è già accaduto la scorsa settimana e a quanto aspetta il Dragone nel primo mese del nuovo anno. Nessuna catastrofe all’orizzonte, bensì una indicazione finalmente chiara riguardo l’atteggiamento che il governo di Xi Jinping intende davvero tenere nei confronti della sua agenda pluriennale di riforma. Insomma, entro la primavera del 2020, Pechino potrebbe veramente essere costretta a svelare le carte che ha in mano e che intende giocarsi nella partita globale dei nuovi equilibri geopolitici e geofinanziari.
Partiamo però dall’antefatto fondamentale, un atto accaduto a inizio dicembre e passato sotto silenzio della grande stampa. Anche finanziaria. Il Tewoo Group, trader di commodity a controllo statale e ubicato nella provincia di Tianjin, fece notizia poiché rischiava di diventare la prima azienda emanazione del governo (le cosiddette SoE, State-owned Enterprises) a dover affrontare il potenziale default su un’emissione obbligazionaria in dollari da un ventennio a questa parte. Conoscendo la storia recente della Cina e della sua economia da schema Ponzi, in molti derubricarono quanto stava accadendo all’ennesima crisi di liquidità che si sarebbe risolta con un intervento diretto del principale azionista. Leggi, lo Stato, quella che un tempo era definita la mano invisibile. Insomma, una bella iniezione di liquidità tramite un prestito o un finanziamento travestito da ricapitalizzazione da parte del socio di maggioranza e sarebbe, ancora una volta, passata la paura.
Qualcuno, però, abbozzava anche un’ipotesi alternativa e politicamente molto intrigante. Fra le pieghe delle discussioni ipotetiche, si scommetteva infatti sulla volontà di Xi Jinping di permettere da ora in poi anche “epiloghi di mercato” alle crisi creditizie interne, pur di non inviare segnali distorti e incoerenti rispetto la sua attitudine riformista, il suo impegno ferreo verso un cambio di paradigma strutturale. Il tutto, però, tenendo conto degli scossoni che questo poteva inviare su una piramide creditizia combinata – e in parte opaca, essendo poggiata sistematicamente sul sistema bancario ombra, ridimensionato nei controvalori ma ancora presentissimo e pervasivo per l’economia reale – da 40 triliardi di dollari, strutturalmente ormai fuori controllo e che proprio il numero uno del Partito intende far rientrare nei binari della sostenibilità ciclica. E i presupposti per uno stress test di quelli decisamente probanti, c’erano tutti.
Il Tewoo Group rappresenta infatti un conglomerato che opera in uno svariato numero di industrie, dalle infrastrutture alla logistica, da quella mineraria alle automobili fino ai porti e vanta filiali e interessi negli Usa, Germania, Giappone e Singapore. Di più, nel 2018 figurava come 132esima azienda della Fortune’s Global 500, prima di giganti come China Telecommunications e Citic Group e può vantare revenues annuali per oltre 66 miliardi di dollari, profitti per 122 milioni, assets pari a 38,3 miliardi e oltre 17mila dipendenti. Insomma, un gigante. Il quale, però, di per sé vanta anche alcune peculiarità che non depongono affatto a favore di un profilo di rischio da investimento plain vanilla.
Nonostante le cifre da major, non è infatti quotato su alcuna Borsa e non riceve una periodica valutazione del rating da parte delle tre principali agenzie mondiali: di fatto, non è tracciato dai principali proxies del mercato e, quindi, pecca potenzialmente in attendibilità della valutazione. E cos’è accaduto? I guai sono cominciati nel mese di aprile, quando una contrazione sulla liquidità portò il gruppo a chiedere un’estensione delle linee di credito e a vendere rame sotto costo di mercato e in enormi quantità, pur di introitare. Quello stesso mese, nonostante non vi sia un rapporto ufficiale, Fitch intervenì comunque sul rating del gruppo, tagliando la valutazione di sei gradini in un colpo solo e portandolo a B-.
La motivazione? Oltre alla scarsa liquidità, un’esposizione molto più alta delle attese al leverage. Un classico cinese, quasi come gli involtini primavera. A inizio dicembre, poi, la crisi ha vissuto un’accelerazione, quando l’azienda non è stata in grado di ripagare gli interessi su un bond da 500 milioni di dollari, obbligando la Industrial & Commercial Bank of China Ltd. a intervenire per placare gli animi, attraverso una lettera di credito legata all’obbligazione che vedeva l’istituto pronto a coprire il dovuto, in caso Tewoo Group non fosse stato in grado. Ma la proverbiale goccia era già stata versata, il Rubicone varcato.
Ed ecco arrivare la proposta shock agli obbligazionisti, quanto meno perché assoluta novità (in negativo) nel panorama del credito cinese: una draconiana ristrutturazione del debito, alla quale sarebbe stato necessario aderire o rifiutare inderogabilmente entro il 9 e 10 dicembre scorsi. I termini erano davvero ultimativi e assolutamente senza precedenti per la Cina: accettare un haircut che sarebbe potuto arrivare addirittura fino al 64% del valore dei bond. Oppure, una dilazione dei pagamenti con ampia riduzione dei coupons sui rimanenti 1,25 miliardi di obbligazioni denominate in dollari del gruppo. Il tutto, appunto, da decidersi in breve tempo. Poiché il 16 dicembre si rischiava di andare nuovamente in default su un’altra scadenza obbligazionaria legata a un bond da 300 milioni di dollari, quasi un effetto domino. Insomma, emergenza.
Anche perché, prima della casamadre erano state due unità controllate del Tewoo Group – la Tianjin Hopetone Company e la Tianjin Haoying Industry & Trade Company – a saltare pagamenti verso obbligazionisti legati a emissioni di debito a livello locale, rispettivamente nel luglio e giugno scorsi. E senza scordare che la provincia di Tainjin, location storica e originaria del Tewoo Group, a fronte di un tasso di crescita precipitato recentemente e ora stagnante sotto la soglia psicologica del 4%, deve fare i conti con una ratio fra liabilities aggregate (leggi debito, volgarmente parlando) ed entrate fiscali superiore al 600%, la più alta di tutta la Cina.
E proprio questo indebitamento delle autorità locali stava spaventando gli investitori in prospettiva, visto che una simile dinamica potrebbe limitare sempre di più la capacità di prestito e garanzia sul debito del sempre maggior numero di aziende in crisi dell’area: lo scorso luglio, proprio alla luce di queste incertezze, la Tianjin Binhai New Area Construction & Investment Group Company ha rinviato a data da destinarsi l’emissione di un bond a tre anni denominato in dollari. E se i rendimenti richiesti salgono come compensazione del premio di rischio, l’effetto valanga è assicurato.
E cos’è accaduto il 9 e 10 dicembre scorsi? L’imponderabile, se si pensa al panorama creditizio cinese di soltanto un anno fa: la maggioranza degli obbligazionisti (il 57%, per la precisione) che detiene quel bond ha votato a favore della ristrutturazione del debito, accettando haircuts che andavano da un minimo di 67 centesimi sul dollaro rispetto al valore facciale a un massimo di 37 centesimi per dollaro, in base alla data di maturazione del titolo in possesso.
Cataclisma? No. Contagio immediato su altri titoli e spread alle stelle? No. E ora, allora?
(1- continua)