«La catena di fornitura globale era già in crisi prima dello scoppio della pandemia. Forse nel 2023 vedremo un primo miglioramento della situazione». A piantare il proverbiale chiodo sulla bara delle speranze di ripresa post-Covid per l’economia mondiale ci ha pensato, intervistato da Bloomberg TV, Ahmed Bin Sulayem , presidente e CeO del Dubai DP World, uno dei più grandi porti commerciali del mondo. Certo, oggi la discussione sarà tutta sul risultato elettorale. Com’è giusto che sia. Quindi mi sono adeguato e il mio articolo sarà più breve del solito. Ma attenzione, perché a questa previsione funesta avanzata da un uomo che sa di cosa parla quando si addentra nel mondo della supply chain, poche ore prima si era unita un’altra poco rassicurante dinamica: venerdì 1 ottobre, i futures del gas naturale europeo (Dutch) avevano toccato quota 100 euro per magawatt/ora. Un record.



Capite da soli che un combinato simile, taglierebbe le gambe all’outlook sul Pil più ottimistico. E, soprattutto, non esiste stamperia di Banca centrale al mondo che possa sbloccare gli hub, far calare il prezzo dei noli e aumentare la disponibilità di container, accelerare la risoluzione dei colli di bottiglia e, soprattutto, generare corrente elettrica con acquisti obbligazionari. Qui si parla di economia reale, carne viva, aziende e industrie. E se questo grafico mostra come le riserve di gas naturale europee siano attualmente sui loro livelli minimi, il tutto all’inizio della stagione fredda, giova sottolineare un altro avvenimento. Decisamente preoccupante.



Quel balzo nelle quotazioni dei futures del gas è stato reso possibile dall’ulteriore stretta sui rubinetti operata da Gazprom rispetto ai flussi sulla pipeline Yamal-Europe e indirizzati all’hub tedesco di Mallnow: dopo il -57% di inizio della settimana scorsa, fra giovedì e venerdì il calo overnight è stato addirittura del 77%. O l’Europa si muove nel dare risposte concrete a Mosca rispetto alle concessioni operative necessarie per far partire subito la prima infrastruttura di trasporto di Nord Stream 2 o c’è il fondato rischio che il Cremlino attenda la prima, vera incursione di maltempo e freddo e lasci per un paio di giorni le condotte inutilizzate. A quel punto, futures a parte, qualcuno dovrà prendere in mano la pratica. E, temo, lo farà con i soliti toni da maccartismo 2.0 per condannare l’atteggiamento di Mosca. Nemmeno a dirlo, subito dopo Washington telegraferà la sua solidarietà e metterà l’accento sulla pericolosità della dipendenza energetica europea da Mosca.



Sembra un copione già scritto. E temo, lo sia. Ma ecco che la questione diventa ulteriormente seria, quantomeno alla luce dell’ottimismo del Governo italiano sulla sostenibilità della ripresa economica in atto, quando si presta attenzione a questa immagine: mostra le varie componenti energetiche utilizzate da alcune nazioni europee per la produzione di elettricità, il cosiddetto breakdown.

Vi invito a prestare attenzione a tre particolari. Primo, la quota di carbone tedesco. Secondo, la quota di nucleare francese. Terzo, la quota di gas naturale italiana. Questi sono fatti, le dispute ideologiche sulla questione della transizione ambientale, del green, della sostenibilità e della lotta ai cambiamenti climatici non c’entrano. O, quantomeno, non in maniera diretta e immediata. La questione è che occorre che il Governo prenda una decisione. La Francia, intesa come economia e tessuto produttivo, paga l’elettricità una miseria rispetto a noi, grazie alla preponderanza del nucleare. Il quale, giova sottolinearlo, oltre a essere pulito e sicuro, è comunque per la gran parte già sulla nostra soglia di casa: se scoppia una centrale in Francia, state certi che le radiazioni non si fermeranno alla frontiera per una strana insofferenza a Schengen. Quel gap, quello spread sui costi energetici in un regime di pressione sui margini operativi come quello descritto dal CeO del porto di Dubai diventa esiziale, un discrimine fra restare sul mercato da protagonista, addirittura guadagnare nuove quote o sparire.

Certo, oggi si parla di sindaci ed è giusto così. Ma si parla anche di contrappesi all’interno della coalizione di governo. Forse, qualcuno azzarderà addirittura ragionamenti sulla stessa tenuta dell’esecutivo fino a fine mandato. Mi permetto di sottolineare una sola cosa: quel 6% di Pil che continuiamo a sbandierare non è garantito. Ma, soprattutto, non è eterno. E non è frutto della Bce, quantomeno se non nella dinamica tutta statale e fuori libero mercato dei costi di finanziamento dello stock di debito e del suo servizio.

Attenzione a non prendere sul serio quanto sta accadendo, proprio ora. Anzi, da almeno sei mesi a questa parte. Potremmo svegliarci di colpo. E in modo traumatico.

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