Fateci caso, il coronavirus sta calando. Non solo di intensità, quantomeno in base ai dati cinesi, credibili di per sé quanto la contabilità di Fausto Tonna in Parmalat. Ma anche di attenzione mediatica. Non è quasi più la prima notizia assoluta dei tg, grazie al cielo i talk-show (per chi ancora li guarda) non hanno più sette virologi in studio ogni giorno e lentamente anche i collegamenti dallo Spallanzani non ricordano più quelli di Paolo Brosio dal Palazzo di giustizia di Milano nel 1992. Vuol dire che tutto è risolto? No, affatto. Anzi, i guai cominciano ora. E a testimoniarlo ci ha pensato un big assoluto come Apple, il quale ha tagliato la guidance sugli utili da 67 a 63 miliardi di dollari, proprio a causa delle interruzioni sulla catena produttiva e di fornitura di Foxconn, il gigante cinese che assemblea la metà di tutti gli iPhone al mondo.



E allora? Allora occorre leggere le notizie fra le righe. E accorgersi, ad esempio, che Wall Street non ha fatto praticamente una piega di fronte all’ammissione di fragilità di uno dei suoi campioni assoluti. E il Nasdaq, dopo una giornata in lieve flessione, martedì ha addirittura chiuso in positivo. La panacea, anzi il “vaccino” della Fed, per ora si sta rivelando efficace. Ma per quanto potrà andare avanti, questa storia?



La Pboc cinese è tornata in modalità espansiva, la Federal Reserve ha ottenuto l’alibi che le serviva per rimandare a dopo l’estate ogni decisione sul ritiro delle misure monetarie in atto, la Bank of Japan probabilmente starà studiando un piano di acquisti ancora più ampio, abbandonando gli Etf e acquistando direttamente singoli titoli in difficoltà, quasi una versione Robin Hood di un hedge fund. E la Bce? Non pervenuta. Avete sentito uscire una parola dall’Ecofin di inizio settimana? Zero. Sicuramente il Vertice europeo in programma per oggi partorirà chissà quale geniale intuizione, ma, in punta di ordine del giorno, occorrerebbe discutere di budget e non di misure emergenziali. Le quali, fra l’altro, dipendono a livello europeo proprio in gran parte dall’Eurotower e non da altri organismi dell’Unione, ultimamente molto attenti ai pinguini accaldati: notizie di madame Lagarde, per caso?



Signori miei, delle due, l’una. O la situazione reale non è drammatica come ce la stanno raccontando oppure occorre ammettere che il mondo non stesse aspettando altro che un alibi valido per ammettere parzialmente che il Re è nudo, dopo interi trimestri di narrativa. Tertium non datur. Perché non è possibile, non è normale che gli indici di Borsa continuino a navigare placidamente, al limite incassando qualche ribasso fisiologico, mentre l’oro rischizza sopra i 1.600 dollari l’oncia. E non è normale che nessuna asset class stia prezzando a livello di performance e valutazioni le notizie relative a ritardi sulla produzione e le interruzioni sulla catena di fornitura globale, quasi esistesse la certezza di un piano predeterminato. Magari di derivazione divina, superiore.

Donald Trump, l’uomo che twitta per qualsiasi cosa al mondo, avrà dedicato alla questione coronavirus al massimo un paio di post, forse tre: vi pare normale, al netto dei danni formali che la serrata forzata del Dragone potrebbe imporre all’economia Usa (e globale) a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, come mostra questo grafico? Oltretutto, proprio ora che – almeno ufficialmente – era stata siglata la Fase uno dell’accordo commerciale. A me, no.

Ora, stando alla cronaca ufficiale e non seguendo notizie avventate, il vice-direttore dell’ente regolatore delle aziende pubbliche cinesi (Sasac), Ren Hongbin, ha certificato che il 95% delle imprese a controllo statale parziale o totale (Soe) è tornato alla produttività. Insomma, nei settori strategici del petrolio, delle telecomunicazioni, della chimica, dell’energia e dei trasporti, siamo praticamente tornati a un’operatività quasi normale. Gli stessi cinesi, quindi, paiono ammettere che la situazione non sia poi così grave come la si dipinge, almeno a livello meramente di attività economica.

Però, com’è possibile spiegare questo grafico, relativo alle emissioni inquinanti nei quattro hub principali del Paese: forse Pechino, mentre cercava un vaccino per il coronavirus, si è imbattuta in un metodo infallibile per fare funzionare le fabbriche senza inquinare? Greta Thunberg ne sarà deliziata. Insomma, la Cina sarebbe tornata alla normale operatività industriale da colosso con il 6% di crescita all’anno senza emissioni e praticamente senza utilizzo di energie inquinanti? Questa sì che è una scoperta, una notizia che dovrebbe aprire i tg. Magari è per questo che i mercati festeggiano. Eppure, nessuno ne parla. Grazie a Dio, perché trattasi di clamorosa bufala. Anzi, clamorosa fake news. Contro la quale, però, nessuno ha da obiettare alcunché, arrivando da fonte ufficiale di un Paese che è meglio tenersi amico.

Per quanto ancora ci faremo prendere per i fondelli dai cinesi e non chiederemo conto della realtà? Non ci vorrebbe molto, visto che viviamo in un mondo in cui il Consiglio di sicurezza dell’Onu viene scomodato per materie ben più frivole: si organizzi una bella plenaria e si obblighi il Governo cinese a fornire tutti i dati in suo possesso, a tratteggiare finalmente un quadro il più possibile chiaro e univoco della situazione. Pare troppo complicato. Meglio basarsi su voci spot, spesso totalmente artefatte. E sapete perché? Perché sta tornando la recita a soggetto che abbiamo vissuto per mesi durante la falsa guerra commerciale fra Usa e Cina, con notizie strampalate che uscivano a getto continuo e garantivano agli indici di Borsa altrettanto continui flip-flop. Tre giorni di calo, poi un enorme short squeeze basato sulla solita voce filtrata da ambienti governativi non meglio individuati: nel frattempo, gli algoritmi venivano settati per bene e ricominciava la pantomina delle Borse che sanno solo salire, a dispetto della realtà circostante. Proprio come accade oggi.

E dopo l’emergenza sul mercato repo di metà settembre scorso, creata ad arte dallo spostamento di riserve presso i conti Fed da parte di una grande banca nel corso dell’estate precedente e che ha garantito il ritorno all’operatività diretta sul mercato della Federal Reserve dopo 10 anni, ecco che ora un nuovo alibi è pronto per essere sfruttato. Oltretutto, non legato a un oscuro meccanismo finanziario per addetti ai lavori, bensì a una pandemia che media e governi possono plasmare in base alle esigenze emotive di terrore o rassicurazione che l’opinione pubblica globale lasciare trapelare: un giorno i morti aumentano a ritmo manzoniano, il giorno dopo crollano e addirittura aumentano le guarigioni, tanto che chi viene dimesso è invitato a donare il plasma per aiutare gli altri malati. Tutto nell’arco di 24 ore: questa la realtà ufficiale. Le fake news, invece, sarebbero quelle relative alla contabilità creativa utilizzata da Pechino nel classificare i nuovi contagiati, almeno stando all’Oms. Capite in quale distopia di massa viviamo?

Qui non si tratta di negare l’esistenza del virus, per carità. E nemmeno mi interessa più di tanto sapere se sia stato causato da agghiaccianti piatti tipici a base di pipistrello o da qualche Dottor Stranamore un po’ distratto nel bio-laboratorio di Wuhan. Mi piacerebbe però capire quale potrebbe essere la prossima emergenza salvifica alle porte. L’Isis ormai è andato, l’Iran pare passato di moda, la guerra commerciale Usa-Cina pare risolta e comunque scavalcata a livello di audience dall’emergenza sanitaria che impone solidarietà globale, la Nord Corea non appassiona più come un tempo, il Russiagate è roba da archeologia politica: torneranno magari ai “classici”, ad esempio a un vecchio amore come la Siria? Forse con un altro attacco chimico inventato di sana pianta, a favore di smartphone? Visto l’ingresso in scena della Turchia, lì come in Libia, non mi stupirebbe. Oltretutto, da quelle parti la variabile petrolio garantisce il giusto grado di finanziarizzazione ai conflitti.

E attenzione, perché il video del papà siriano in modalità La vita è bella che fa credere alla figlioletta come i bombardamenti siano in realtà solo un gioco, divenuto virale e in grado di commuovere il mondo, rappresenta un proxy classico di come certe dinamiche hollywoodiane di disinformazone stiano per tornare in auge. È tutto un enorme baraccone della paura, un emergenzificio, se mi passate questo orrendo neologismo. Guardate questo altro grafico, ci mostra l’andamento al Nikkei del titolo della Kawamoto, principale produttore di mascherine produttive del Giappone.

La flessione del prezzo è coincisa con la fase di contabilità creativa del numero di nuovi contagiati e di decessi, mentre il rally ancora in atto è partito dopo l’ammissione da parte di Pechino di metodologie un po’ allegre e la promessa dell’adozione di test e criteri più seri: dobbiamo fidarci di un mondo che è nelle mani della Kawamoto e del suo andamento di Borsa, per capire davvero come stanno le cose? Perché se così fosse, le dinamiche di trend attuale ci dicono che non solo il picco è lungi dall’essere alle porte, ma anche che la possibilità che il 95% delle aziende a controllo statale cinese sia tornato operativo risulti pari a zero, a meno che Pechino in nome del Pil non mandi al macello operai e impiegati, costringendoli a lavorare in piena pandemia. Voi, in tutta onestà, vi sentite in grado di certificare cosa stia davvero accadendo? Io no. Ma le Borse festeggiano, le Banche centrali stampano e i Governi – italiano compreso, visto che il ministro Gualtieri ha già messo le mani avanti sul rispetto dello 0,6% di crescita atteso per quest’anno – gongolano per l’alibi alle revisioni al ribasso già in atto rispetto alle stime economiche garantito dal virus, dal nemico esterno, dal cigno nero sanitario di cui nessuno ha colpa o responsabilità.

Il solito copione. Ancora e ancora. Quale sarà la prossima emergenza, quella destinata a compiere un tratto di strada a braccetto con le primarie Usa?

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