Nell’ultimo anno, gli Usa hanno perso 284.000 posti di lavoro full-time e ne hanno creati 921.000 part-time. Solo nel mese di febbraio di quest’anno, 1,2 milioni di posti di lavoro sono andati a lavoratori di nascita straniera. Negli ultimi tre mesi, 2,4 milioni di posti di lavoro riconducibili a lavoratori nati negli Usa sono stati persi. Di questi, 494.000 solo in febbraio.



Infine, dal maggio 2018 a oggi, negli Usa sono stati creati 0 (zero) posti di lavoro riconducibili a lavoratori native-born americans, come mostra l’eloquente grafico. Tutta l’occupazione creata negli ultimi 6 anni fa riferimento a lavoratori di nascita straniera. Legali e illegali.

Dietro al dato non-farm payrolls di venerdì scorso, c’è anche questo. Oltre a quanto rilanciato solo un giorno prima da Cnbc e cristallizzato in questo titolo: febbraio di quest’anno ha segnato il dato record per quel mese a livello di licenziamenti.



Il giorno dopo, l’ennesimo dato votato al ridicolo. E, soprattutto, strumentale alla percezione di salute dell’economia. Tradotto, data-dependency sul timing del taglio dei tassi intatta. Nemmeno a dirlo, il dato di gennaio è stato oggetto di revisione. Come sempre negli ultimi due anni. Ogni mese, E anche quello appena diffuso con i suoi 275.000 nuovi posti a fronte di attese per 200.000, è destinato a non fare eccezione.

Qui però c’è qualcosa di più. Che fa riflettere. Che deve fare riflettere. L’America è la patria dei senza patria. Nel senso che, al netto della retorica da Gangs of New York, gli Usa sono un coacervo di razze e nazionalità unite dall’immigrazione. L’americam dream, la carta verde. E divenute Paese. Qui però c’è dell’altro. Qui c’è l’odore forte, pungente e quasi nauseabondo di un marxiano esercito industriale di riserva. Ovviamente, 2.0. Social e digitale. Perché le dinamiche salariali Usa parlano chiaro. Da interi trimestri. Consecutivi. E non a caso, hanno da un lato aggravato la percezione di erosione del potere d’acquisto da inflazione e, dall’altro, offerto ai regolatori l’alibi attendista del timore di spirale proprio fra salari e prezzi.



Gli Usa, il cui Pil ancora dipende al 70% dai consumi personali, devono dar vita alla medesima compressione salariale che l’Europa ha testato con successo in Grecia. E devono farlo al di fuori di un’emergenza ufficiale. Ma il debito Usa è a 34 trilioni. E cresce di 1 trilione ogni 100 giorni. Le spese per interessi, 1 trilione l’anno. E il Tesoro emette Treasuries col badile. Occorre recuperare sostenibilità attraverso la repressione salariale. E la produttività. Quest’ultima garantita in primis dalla competitività verso un’Europa azzoppata ad hoc tramite agenda green prima e sanzioni poi. In seconda battuta, da un bacino di soldati del credito al consumo pronti a produrre, consumare e crepare. Sperando nella cittadinanza e nelle città santuario. Con sei carte di credito nel portafogli per spalmare lo scontrino alla cassa di Walmart, un prestito per l’auto e uno per pagare le bollette di una stamberga. Mentre Nvidia vola. E tutto va bene.

Lo chiamano inclusione, si chiama sfruttamento. E razzismo. Ancorché di classe. E se pensare che questo approccio abbia unicamente una finalità di controllo sociale ed economico interno per le economie avanzate ormai tali solo grazie all”indebitamento, ripensateci. E ampliate lo sguardo. Perché tout se tient.

Prendete questo grafico, ad esempio. Ha molto più a che fare con quel dato occupazionale Usa dispotico e coloniale di quanto non sembri a un primo, superficiale sguardo.

Che le scorte ai massimi storici avrebbero operato da cuscinetto di breve/medio periodo della crisi nel Mar Rosso era abbastanza chiaro. Il grido d’allarme per una nuova impennata dei prezzi da calo dell’offerta, altro non era se non la solita, strumentale narrativa da data-dependency. L’inflazione ormai è una variabile finanziaria, certamente non una dinamica macro. Se serve alimentare un pivot di taglio dei tassi, scende. Se occorre proseguire con l’attesa, consci che le condizioni finanziarie siano già oggi da ciclo espansivo in atto, allora assistiamo a inaspettati colpi di coda. I media, chiaramente, riportano. E alimentano. C’è però un problema: quanto sta accadendo rischia di avere un effetto collaterale ben più serio di una crisi sulla supply chain globale, ancora fresca da uno stress test di lusso come il Covid e dal conseguente re-shoring. Il problema sta nel grafico: oggi il Canale di Suez mostra un’operatività molto più simile a quella di Panama che a Capo di Buona Speranza, di fatto la tratta alternativa verso cui si è indirizzato il re-routing imposto dagli attacchi degli Houthi.

Domanda: il playbook parallelo del conflitto ibrido generatosi a Gaza, prevede una primavera araba in Egitto, così da riscrivere davvero gli equilibri dell’area colpendo l’elefante geopolitico nella stanza? Perché a livello di entrate fiscali, Suez è l’aria per Il Cairo. E l’asfissia potrebbe essere generata da uno shock anche minimo, stante la delicatezza del momento.

La scorsa settimana, infatti, l’Egitto ha praticamente vissuto la sua piccola rivoluzione condensata. Fra scelte volute, subite e azzardate. Tasso di cambio divenuto flottante per il pound, mossa che ha generato un 38% di calo intraday nel cross. Ma che ha immediatamente fatto alzare le antenne, ad esempio, ai big del tessile turco, pronti a spostare la produzione proprio in Egitto, stante l’eccellenza del comparto e costi decisamente inferiori. Inoltre, 6 punti percentuali di aumento dei tassi di interesse per cercare di contrastare l’inflazione. E, soprattutto, accordo per un pacchetto di salvataggio da 20 miliardi di dollari da parte del Fmi. Ma non basta. Il 23 febbraio, l’Egitto ha ricevuto la notizia dello sblocco del bailout da 35 miliardi di dollari da parte degli Emirati Arabi Uniti, i quali investiranno in progetti di real estate nell’area di Ras El-Hekma. Contemporaneamente, l’Arabia Saudita sta trattando i termini di un piano di investimento immobiliare a Ras Gamila, proprio sul Mar Rosso. Insomma, hot money pronta a tornare come nel quadriennio 2017-2021, grazie al ritiro dei controlli valutari e al rialzo dei tassi. Ma anche Occidente pronto a prendere in mano il guinzaglio tramite il Fmi, da sempre veicolo di controllo politico mascherato da bancomat globale.

L’Egitto è strategico. Per tutti. Usa. Cina. Russia. Golfo. E l’Europa? Non ha nemmeno capito come gli Houthi, in realtà, stiano giocando su più tavoli. In perfetto stile da doppiogiochismo curdo. Quando capiremo come lo Yemen sia la nuova centrale della spy war globale, sarà tardi. Come al solito. In compenso, se la destabilizzazione genererà una nuova ondata migratoria (magari in piena stagione turistica), ce ne faremo carico.

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