Diciamoci la verità: dell’epidemia di coronavirus che sta colpendo la Cina sappiamo poco e niente. Certo, abbiamo le statistiche ufficiali del Governo cinese, le stesse che nell’arco di pochi giorni si sono contraddette, smentite e contro-smentite così tante volte da essere credibili quanto la contabilità della Enron. Abbiamo le immagini dei tg e quelle che arrivano, sfuggendo alla censura, tramite i social network. Abbiamo la percezione di quanto sta accadendo, ma non sappiamo davvero nulla di quale sia la realtà.



Ne volete un assaggio? Ad esempio, perché la stampa italiana non ha riportato le dichiarazioni del presidente Xi Jinping dello scorso 14 febbraio? Appaiono davvero interessanti. E, in parte, rivelatrici. Ripreso da Global Times, il numero uno del Dragone ha dichiarato che “occorre un miglioramento del meccanismo preventivo di risposta a crisi sanitarie pubbliche di grande entità, oltre che del piano di emergenza sanitaria nazionale e del suo management”. Fin qui, ammissione di colpa – già un unicum in Cina -, ma nulla che inquieti più di tanto. Poi, la frase incriminata: “Occorre sottolineare anche l’importanza di procedere alla stesura di una legge sulla bio-sicurezza il prima possibile”. Perché mai? Non è tutto nato da pipistrelli o serpenti, ovvero da agenti patogeni mutati naturalmente dall’animale e poi trasmessi non si sa come all’uomo? Perché è così urgente una legge sulla bio-sicurezza, allora? Chissà.



In compenso, nel silenzio generale dei media, nella provincia di Hubei sono stati inviati 25mila medici lo scorso weekend e il neo governatore e capo del Partito, oltre che ex sindaco di Shanghai, Ying Yong, ha imposto la legge marziale nell’area come misura per la tutela della sicurezza nazionale. Certo, il primo caso di contagio in Africa fa paura e soprattutto fa notizia. Come il primo morto in Europa, nonostante si trattasse di un cittadino cinese. Ma il problema sta tutto nell’epicentro, il problema è la Cina. Occorre capire quanto davvero l’epidemia sia grave e diffusa e quanto potrà impattare sui destini del mondo, poiché il peso percentuale della crescita cinese è passato dal 4% al 16% del Pil globale in poco più di dieci anni. Se prima un rallentamento del Dragone avrebbe fatto male, ora potrebbe risultare fatale.



Certo, il mercato continua nel suo idiota ottimismo pavloviano, rincorrendo le chimere e basandosi sul mantra del bad news is good news, visto che più la situazione macro precipita, più le Banche centrali avranno mano libera. Ma siamo sicuri che basterà? E se sì, basterà per tutti? Occorre capire, prima di poter pensare di delineare scenari credibili sulla reazione del Pil mondiale a fronte della serrata in atto in Cina. Io provo a basarmi sui dati, quelli economici. Se volete, fatelo anche voi. E allora, guardate questi grafici, i quali ci mostrano lo stato dell’arte per quello che è oggi in Cina.

Nell’ordine, ci mostrano la domanda di acciaio per costruzioni, quella di carbone, il dato delle vendite legate al comparto immobiliare e le rilevazioni rispetto al traffico e all’inquinamento, quest’ultimo proxy diretto dell’attività industriale: se queste rilevazioni di banche d’affari e istituti autorevoli sono reali (e vista la mancata smentita cinese, temo proprio lo siano), significa che oggi la Cina è morta. Ferma. Immobile. A gennaio, stando a quanto appurato da Goldman Sachs, la domanda di acciaio per costruzioni è calata dell’88% su base annua “e sta velocemente approcciando lo zero assoluto”. Il mercato real estate, tracciato attraverso i dati di vendita quotidiana provenienti dalle 30 principali città del Paese, è totalmente congelato. Le necessità di carbone sono colate a picco, sintomo che i fabbisogni energetici delle fabbriche sono schiantati e il dato medio di traffico in 100 città del Paese, dalle megalopoli a quelle di medie dimensioni, è da ghost town. Città fantasma. Stessa cosa per l’inquinamento, per una volta da ritenersi un male auspicabile, poiché sintomo di attività.

Signori, la realtà è questa. Quanto durerà la crisi della pandemia, ancora? E quanto pensate ci vorrà a far ripartire l’economia e la produttività del Paese, una volta superata l’emergenza sanitaria? La quale pare ben lungi dall’essere arrivata ancora al picco e a un punto di svolta. Quanto male ci farà come Italia e come Europa questo stop totale dell’economia che ha tirato la carretta nell’ultimo decennio, al netto di tutte le sue distorsioni valutarie, finanziarie e di dumping commerciale?

Una risposta indiretta ce la offre il report mensile della China Association of Automobile Manufactures (Caam) relativo alle vendite di veicoli del mese di gennaio, appena pubblicato: -20,2% su base annua, pari a solo 1,94 milioni di automobili vendute. Un tracollo. Da cui difficilmente la Cina riuscirà a riprendersi in tempi brevi, stante appunto il clima da serrata generalizzata che la quarantena da coronavirus sta imponendo all’industria del Paese. La stessa associazione dei produttori parlava in un articolo pubblicato su Asia Times di un calo atteso per il mese di febbraio ancora in corso addirittura fra il 50% e l’80% rispetto all’anno precedente: “Da fine gennaio, non abbiamo visto un singolo cliente”, lamenta disperato il 70% dei rivenditori interpellati in un sondaggio. E anche le auto elettriche, beneficiarie fino alla fine del 2019 di un munifico programma di incentivo statale, hanno patito il medesimo destino, con le vendite del comparto scese addirittura del 54% su base annua a gennaio. Difficile, a fronte di uno scenario simile, pensare che il mercato più attrattivo al mondo come quote di mercato prospettiche (insieme all’India) possa tornare a garantire numeri accettabili, anche e soprattutto ai marchi esteri che si sono lanciati in investimenti senza precedenti.

Signori, la realtà è questa. Il mercato auto è solo il canarino nella miniera di quanto potenzialmente potrebbe accadere. E l’Europa è sulla linea del fuoco, la più esposta. Anzi, la vittima sacrificale di un’imboscata parallela che nasce proprio dall’emergenza in atto, ne trae linfa. Volete un esempio? Partiamo da quella che potrebbe apparire come una criticità tutta made in Usa. Ovvero, il fatto che contraddicendo se stesso nell’arco di una sola settimana rispetto a quanto dichiarato agli investitori – It doesn’t make sense to raise money… we are cashflow positive -, venerdì scorso Elon Musk ha deciso di dar vita a un’offerta supplementare di titoli per un controvalore di 2 miliardi di dollari, prezzandola allo stratosferico prezzo di 767 dollari per azione. E l’aggettivo che ho utilizzato non fa riferimento solo al drastico calo patito dal titolo Tesla dopo il rally che l’ha spinto in tre giorni a sfondare quota 960 dollari, bensì al blocco delle attività produttive e di consegna in Cina del Model 3 a causa del coronavirus, ai guai con la Sec emersi lo scorso dicembre e lungi dall’essere risolti e, soprattutto, al richiamo di 3.183 Model X proprio in Cina, dopo i 15mila già annunciati in Nord America, a causa del malfunzionamento di un componente del motore.

Insomma, una messe di criticità che – alla luce del contesto generale di settore – pare non giustificare un prezzo simile per il titolo offerto e che, soprattutto, aumenta il rischio di scoppio della bolla del titolo in Borsa, anche tenendo conto del continuo aumento delle posizioni ribassiste tramite opzioni put e del market cap dell’azienda, la quale – facendo riferimento alla valutazione del 4 febbraio scorso – valeva più dei giganti del comparto automotive tedeschi messi insieme (Bmw, Volkswagen, Daimler). E forse perché spaventato proprio dall’ipotesi di un tonfo del titolo più caldo di Wall Street in piena campagna elettorale (con annesso parco buoi con il cerino in mano e intento a leccarsi le ferite delle perdite), qualcuno azzarda che Donald Trump possa aver utilizzato la carota della moral suasion – dopo il bastone sul caso Huawei – con Xi Jinping.

Come? Semplice. Sapete infatti quale ruolo ricopriva il già citato ex sindaco di Shanghai, Ying Yong, prima di assumere la guida della provincia di Hubei su nomina presidenziale diretta? Era l’uomo ingaggiato da Elon Musk per gestire l’immagine e gli interessi di Tesla in Cina durante la fase più delicata della crisi commerciale con gli Usa. Bene, ora questa stessa persona è il nuovo capo del Partito comunista nella provincia di Hubei, ovvero l’epicentro dell’epidemia di coronavirus. Di fatto, un plenipotenziario con poteri assoluti. Non a caso, appunto, la sua prima mossa è stata l’imposizione della legge marziale, da cui deriva la possibilità di condanna a morte per chi venisse scoperto a nascondere i sintomi della malattia o a non rispettare la quarantena.

Cosa dite, quando sarà passato il peggio e la Cina ricomincerà a macinare crescita, pensate che Ying Yong si scorderà del suo ultimo datore di lavoro, se si dovesse arrivare a decidere quali soggetti priorizzare nella riapertura degli stabilimenti e nella riattivazione operativa e infrastrutturale di quell’hub produttivo fondamentale?

Io non credo. Attenzione, sappiamo un milionesimo di quanto ci sarebbe da sapere. Ci sono interessi in atto che proprio “grazie” al caos e alla fobia generalizzata della pandemia stanno sviluppando le loro tele di Penelope. E l’esempio che vi ho appena fatto rappresenta solo un minuscolo particolare del tutto, una tessera del mosaico. E, certamente, nemmeno una di quelle in grado di svelare la figura finale. Non vi stupisce il silenzio di Commissione Ue e Bce riguardo l’emergenza economica legata al coronavirus, al netto delle riunioni congiunte fra i ministri degli Stati membri sugli aspetti meramente sanitari? Nessun allarme, di fatto. E, soprattutto, nessuna strategia. E il nostro Governo, vi pare che stia prendendo sul serio quanto si sta sostanziando all’orizzonte? Ma se davvero piomberà sull’eurozona – già in contrazione feroce – lo spettro della recessione tout court, guidata dal crollo industriale tedesco, il nostro Paese pagherà un conto che definire salato appare un eufemismo. Con 150 tavoli di crisi aperti al Ministero e centinaia di altri che fanno riferimento a realtà così piccole da non meritare convocazioni a Roma, agitazioni sindacali o titoli di giornali, se per caso il Nord produttivo che vive di forniture di alta tecnologia e componentistica alla Germania – ma anche di export verso la Cina – si dovesse fermare, allora sarà davvero improbo lo sforzo che i nostri imprenditori e lavoratori si troveranno a dover affrontare. Praticamente, impossibile.

Qualcuno a Roma, di qualsiasi colore politico o ispirazione ideologica sia, avrebbe qualcosa da dire al riguardo?

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