Il senso di quanto sta accadendo in questi giorni di apparente ottimismo da riaperture è facilmente riassumibile con un’immagine. E lo stesso vale per il repentino passo del gambero innescato dallo spread italiano nelle ultime sedute di contrattazioni. L’immagine è questa: la Bce ha davvero accelerato il ritmo degli acquisti in questo secondo trimestre. E pare che lo stia facendo in base a uno scadenzario ben preciso, a sua volta foriero di un sviluppo da prendere decisamente in considerazione in vista dell’autunno.



In base ai ritmi degli ultimi giorni, l’Eurotower sta drenando titoli sul mercato secondario per circa 20 miliardi alla settimana, di fatto 80 al mese. Il medesimo controvalore di Treasuries su cui opera la Fed, cui però la Banca centrale Usa unisce anche 40 miliardi in Mbs. Di fatto, 240 miliardi da qui a fine giugno. Il mese del board ritenuto spartiacque per il futuro stesso del Pepp. E guardando attentamente le date, l’intera questione diviene ancora maggiormente chirurgica: l’arco temporale di acquisto di quel diluvio di carta si contestualizzerebbe fra l’11 marzo e il 10 giugno. Giorno in cui Christine Lagarde parlerà alla stampa al termine della riunione del Consiglio direttivo.



Non può essere un caso: è in atto un’accelerazione sul target mensile che, res ipsa loquitur, mostra già un cambio di impostazione della politica monetaria. E che fa riferimento a dati macro precisi. Il sentiment dell’attività economica francese è ai massimi da 12 mesi, di fatto avendo annullato proprio il gap pandemico, come mostra il grafico. E il tutto, in un contesto di lockdown reale che dura ormai da Natale nel Paese transalpino: cosa pensate che garantisca quell’ottimismo, forse la bella stagione in arrivo? È tutta prezzatura di supporto, niente di più.

Intendiamoci, nulla di male. Anzi, visto che le misure straordinarie adottate dalle Banche centrali servono anche – e, forse, soprattutto – a questo. Resta un grande punto interrogativo: davvero le economie (e non il mercato) hanno già prezzato, incorporato e digerito un graduale ritiro di quelle misure di stimolo? O, passando dalle parole ai fatti, il rischio di un tantrum diverrà reale? Nel qual caso, il problema si fa serio. Perché a emergere non saranno criticità da differenziale, numerini relativi allo spread che questi mesi di Pepp ci hanno insegnato a prendere ancora più con le molle: sarà il gap fra realtà e percezione a mettere sotto pressione economie reali e conti pubblici.



L’Italia dello scontro frontale fra Confindustria e sindacati sulla fine del blocco del licenziamenti, ad esempio, quale scotto pagherà a quell’esame di maturità post-Pepp? Ve lo dico da mesi e mesi, il problema non è la Bce: la Banca centrale ci ha ormai abituato a continui cambi di registro, a scuse a orologeria da mettere in campo ad hoc, a sempre nuove emergenze transitorie tirate fuori come conigli dal cilindro. Il problema sta nella capacità di capitalizzare e fare sistema attorno a quel sostegno, evitando di tramutare dati di crescita da rimbalzo positivo nel classico dead cat bounce. Rimbalzo sì, ma del gatto morto.

La vicenda licenziamenti è stata gestita male, occorre ammetterlo. In primis, dal ministro. Ma anche Confindustria non ha certo sfoderato grande senso della diplomazia e della strategia, armando la mano del suo quotidiano per sferrare attacchi decisamente sotto la cintura: se si vuole portare Maurizio Landini allo scontro, in modo da scaricare politicamente sulla controparte sociale la responsabilità dell’ineluttabile che ci attende dopo le vacanze estive, certamente la strategia appare vincente. Non, però, se si vuole il bene del sistema Italia. E, soprattutto, se si ritiene di essere classe dirigente del Paese.

Quel cambio delle carte in tavola fra ministero, palazzo Chigi e viale dell’Astronomia non è stata una mossa geniale. Anzi. E, per una volta, persino Mario Draghi è apparso meno convincente (e convinto) del solito nel difendere lo scudo che comunque il Governo avrebbe approntato per evitare fall-out occupazionali sulla ripresa, di fatto annunciando la possibilità di ricorrere senza costi alla cassa integrazione per le aziende che evitino di licenziare dopo il 30 giugno. La toppa peggiore del buco: perché uno come Maurizio Landini non necessita di assist per segnare certi goal. Qui, invece, gli è arrivata sulla testa una palla tesa e a mezza altezza, perfetta da essere spinta in porta senza fatica.

Sono scivoloni simili, da Italia pre-Covid, a farci rischiare grosso. Ovvero, vanificare l’effetto ottimismo che invece la Francia sta mettendo a frutto al massimo. Pur con scostamenti sui conti pubblici che non fanno certo dormire sonni tranquilli a Emmanuel Macron. Pur con sindacati, Cgt in testa, che Oltralpe non sono certo morbidi, quando si tratta di protestare. Pur con la variabile Gilet gialli sempre pronta a prendersi le piazze, una volta usciti dal lockdown più severo. Pur con le presidenziali – e non le amministrative – da qui a 11 mesi.

Il nodo dei licenziamenti è dirimente. Per tutti. In primis, per i lavoratori. I quali, ovviamente, poco si interessano alle dinamiche di acquisto della Bce. Ma conoscono molto bene quelle relative all’affitto o al mutuo, alle bollette, ai costi fissi, alla spesa per mangiare e vestirsi. Uno scalone troppo ripido nel ritorno alla normalità delle dinamiche relative al mondo del lavoro, infatti, andrà a impattare pesantemente sul loro potere d’acquisto, in un momento di chiaro trend inflazionistico al rialzo. Il mix più velenoso possibile. E lo stesso membro italiano del board Bce, la colomba ante litteram Fabio Panetta, ieri ha dovuto ammettere che l’area del 2% rischia di essere raggiunta e di prospettarsi come normalità per un certo periodo. La conseguenza? Politica prima che pratica: dopo anni di proiezioni strumentalmente sbagliate al ribasso, al fine di giustificare sempre più Qe per stimolare inflazione, ora si rischia una perdita di credibilità reale da parte della Bce, come mostrano le linee di questo grafico.

A quel punto, allora, lo spread potrebbe davvero diventare un problema per certi Paesi. Italia in testa. Senza scordare l’effetto domino che un aggravamento delle condizioni di reddito di qualche milione di lavoratori, fra rischio di perdita del lavoro e inflazione, potrebbe innescare sul capitolo spinoso e mai del tutto risolto delle sofferenze per i nostri istituti di credito, i quali sconteranno la venuta meno graduale del loro prestatore di unica istanza. E dovranno, giocoforza, stringere e non allargare i cordoni della borsa. Altro rischio potenzialmente mortale per la ripresa.

Insomma, Confindustria e sindacati guardino attentamente quel grafico relativo agli acquisti della Bce e si fermino, prima di compiere il proverbiale passo più lungo della gamba in un momento che richiede invece assoluta cautela, quasi si stesse camminando su un campo minato. Mario Draghi è un fuoriclasse, certo. Ma non è onnipotente. La Bce è stata il nostro polmone d’acciaio, certo. Ma non è eterna. E stante la dimostrazione plastica dell’inconsistenza di certe ricette autarchiche messe in campo nel recente passato, soprattutto al di fuori di un regime di tutela di Francoforte, forse è il caso di ricalibrare l’intero impianto di politica del lavoro e industriale prima dell’autunno. Ma occorre farlo ora. Anzi, in realtà occorreva farlo ieri. Evitando quello scivolone al ministero del Lavoro.

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