A volte ci sono dati che parlano talmente tanto da soli da rendere totalmente inutile qualsiasi commento. Purtroppo o per fortuna, discuteremo dopo al riguardo, oggi è uno di quei giorni in cui occorre fare i conti con una realtà simile. Questo grafico dice tutto: la produzione industriale cinese nel mese di aprile è calata del 2,9% su base annua contro attese di un +0,5%. Questo non solo rappresenta il secondo calo mensile in assoluto registrato dal Dragone dal 1990 a oggi, ma anche quello di maggiore magnitudo. Perché quindi porsi il problema se una simile lettura vada interpretata come un bene o un male?
Semplice, la Cina è il driver mondiale. E qui non parliamo solo di fabbriche più o meno ferme che quindi incidono sulle dinamiche macro e dei prezzi, parliamo soprattutto di stimolo monetario. Perché viviamo nel mondo del Qe perenne e, dopo tanto parlare di tassi in rialzo e normalizzazione, quanto comunicato ieri da Pechino sembra portare le lancette indietro di almeno un semestre abbondante, quando ancora la coda della terza ondata di Covid operava da discrimine assoluto. In una simile situazione di tonfo produttivo, la Cina non può che fare due cose.
Primo, riattivare la sua economia dalle restrizioni. Secondo, stimolarla in attesa di un riequilibrio delle dinamiche andate fuori controllo: leggi, ad esempio, le oltre 500 navi ferme al largo del porto di Shanghai. Ed ecco che, immediatamente, Pechino sembra voler offrire rassicurazione al mondo. Il vice-sindaco di Shanghai, Zong Ming, a poca distanza dalla pubblicazione dei dati macro nazionali ha reso noto come da metà giugno al massimo verrà eliminata la gran parte delle restrizioni e le attività produttive torneranno all’operatività normale, quantomeno a livello di ordinativi. In tal senso, già dal 22 maggio a Shanghai torneranno in funzione con regolarità tutti i servizi di trasporto pubblico ed extraurbano, stante la mancanza di nuovi focolai in 15 dei 16 distretti della città. Non a caso, soltanto 980.000 persone sui circa 25 milioni di abitanti di Shanghai a oggi rimane in regime di lockdown.
Insomma, si riparte. E ovviamente, occorrerà sostenerla questa ripresa. Cosa che, silenziosamente, la Cina sta facendo da qualche settimana. Da inizio anno, lo yuan ha perso il 7% di valore sul dollaro: una svalutazione che per raggiungere il livello medio delle precedenti – ad esempio, quelle del 2015-2016 e 2018-2020 – deve però percorrere una strada altrettanto lunga. Di fatto, occorre un range fra il 12% e il 15% per ottenere l’effetto sperato.
Guerra valutaria nel pieno della guerra reale in corso in Ucraina? Sì, apparentemente. Ma attenzione, nessuno se ne lamenterà. Anzi. Avete notato come nessuno a Washington abbia avuto particolarmente da ridire rispetto all’arresto del cardinale Zen, avvenuto la scorsa settimana a Hong Kong? E non cercate la soluzione a questo strabismo a livello di rispetto dei diritti umani nel fatto che le autorità dell’ex colonia britannica abbiano rilasciato dopo poche ore l’alto prelato. La ragione è un’altra: una svalutazione sostenuta dello yuan, di fatto, rappresenta l’unico efficace strumento di raffreddamento dell’inflazione interna statunitense. Ovvero, dopo il dato dell’8,3% del CPI della scorsa settimana, Washington ha soltanto una scorciatoia a disposizione per evitare che la Fed debba far seguire i fatti alle parole: che ci pensi ancora una volta Pechino con la sua attività di dumping valutario.
Perché signori, parliamoci chiaro: i mercati stanno fibrillando, ma a fronte di una Federal Reserve che fino a oggi ha solo annunciato e minacciato. In concreto, invece, non ha ancora fatto nulla. Né a livello di Quantitative tightnening sul bilancio, né tantomeno di sufficientemente drastico sui tassi: perché operare ancora in regime sotto l’1% con l’inflazione all’8,3% equivale ad aver aperto l’ombrello sul ponte del Titanic.
Insomma, bad news is good news. Come ai vecchi tempi. Le cattive notizie che arrivano da Pechino appaiono come il proverbiale bicchiere mezzo pieno, poiché ci telegrafano non l’intenzione ma l’obbligo della Pboc di intervenire in maniera ben più drastica del mero taglio dei requisiti di riserva. La Cina entra in modalità Qe? Ovviamente, no. Perché politicamente Xi Jinping non può permettersi di inviare messaggi sbagliati alla nazione. Non ora, dopo aver messo in sicurezza la bolla immobiliare (a proposito, notizie del default di Evergrande?). Ma nei fatti, uno yuan che da qui a qualche mese compia una strada svalutativa di raddoppio rispetto a quanto perso da inizio anno rappresenta un’implicita manovra espansiva. E nessuno avrà da ridire.
Non vi pare calato uno strano silenzio attorno alla Cina, infatti? Non ritenete strano come, dopo la visita della delegazione Usa, Taiwan sia uscita dai radar delle diplomazie internazionali, spaventate dall’ipotesi di uno scenario ucraino per l’Asia? E proprio il pressoché nullo afflato di scandalo che ha seguito l’arresto del cardinale Zen, quantomeno nel breve arco temporale di 24 ore dall’accaduto, non vi pare indizio sufficiente a farci capire come Pechino goda di maleva, purché salvi il mondo per l’ennesima volta con la sua mano visibile sul cambio?
Insomma, formalmente ci sarebbe da essere felici. E probabilmente il mercato lo sarà, prezzando l’ennesimo ritorno in operatività della stamperia globale. Ma occorre guardare più in là, più a lungo termine. Questo ennesimo intoppo che rende necessario l’ingresso di Pechino nella simbolica cabina del telefono dove Clark Kent esce in versione Superman, cosa presuppone infatti? Due cose. Primo, la Cina – piaccia o meno ai suprematisti occidentali – è di fatto il driver mondiale, il motore immobile non solo dell’economia ma anche del mercato. Secondo, se si intende ragionare in ottica di Qe permanente e globale, stante l’impossibilità di operare un reale deleverage sui livelli di debito raggiunti, occorre dire addio al concetto non solo di libero mercato ma anche di democrazia in senso lato. Perché per operare a livello economico-monetario come la Pboc o come la Russia con i flussi energetici, occorrono le autocrazie. O democrature. Non si può avere libertà e rappresentanza ma anche manipolazione sistemica, poiché equivale alla botte piena e alla moglie ubriaca.
Attenzione quindi a certi passi falsi in atto in queste ore e a certe battaglie propagandistiche che vorrebbero la Nato tentata dalla spallata militare contro Mosca: perché potremmo ottenere l’effetto contrario. Stanno dipingendo un mondo che non esiste, perché i nostri presunti nemici sono in realtà nostri complici. Quantomeno, se guardiamo all’economia e al cosiddetto mercato. Piaccia o meno. Non a caso, il falco Josep Borrell ieri ha dovuto ammettere come l’embargo europeo sul petrolio russo sia tutt’altro che garantito. Casualmente, ad Amsterdam il prezzo del gas scendevano in area 92 euro.
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