Per quanto possa apparire sempre più complesso e onnivoro, il mercato rimane un animale sostanzialmente semplice e abitudinario. Certo, viviamo nel mondo del trading algoritmico e ad alta frequenza, ma contemperiamo questa ingegnerizzazione del fare business con la sempre più dilagante influenza mainstream di teorie a dir poco strampalate come la MMT, sostanzialmente un basare l’intero processo economico sullo stampare soldi senza soluzione di continuità e senza un senso. Apparentemente agli antipodi come approccio, ma, in realtà, felicemente conviventi. Anzi, addirittura complementari. Alla fine, però, quando c’è da fare i conti con la realtà e prendere le decisioni realmente dirimenti, si torna all’antico. Nella fattispecie di oggi, a questo: ovvero, al campanello d’allarme, alla bandiera rossa issata dal bagnino perché il mare si sta facendo grosso.



Non solo il rendimento del Treasury a 10 anni sta salendo in area di attenzione dello 0,95%, ma, cosa ben più seria, il breakeven sul titolo di Stato benchmark del mondo con il suo 1,84% è salito ai massimi da maggio 2019. Il motivo? Semplice, è ricominciato in grande stile il tira e molla sul rinnovo del programma di stimolo federale al Congresso. Di più, rispetto alla pantomima pre-natalizia fra Mnuchin e Pelosi, capaci di incontrarsi sette volte al giorno proprio per la gioia dei quant traders, oggi c’è un elemento di ottimismo in più sul tavolo: il vaccino anti-Covid, talmente alle porte da essere ormai prezzato come già iniettato alla maggioranza degli americani e felicemente risolutivo. Insomma, un combinato di ottimismo che spalanca un outloook macro insperato, soltanto fino alla metà di novembre. Di fatto, un potenziale driver per ulteriori aumenti di quei rendimenti obbligazionari. I quali, giova sempre ricordarlo in un mondo dove ormai il debito non viene più ritenuto una liability ma quasi un vanto, sono il riferimento principale dell’iscrizione a bilancio di assets per qualche triliardo di dollari di controvalore.



Insomma, se salgono troppo, il potenziale scenario è quello di un effetto domino sugli strumenti più a rischio, i quali infatti stanno muovendosi nel range di valutazioni al massimo storico grazie proprio ai tassi ultra-bassi. Sgradevole combinato, fortemente associato a un effetto dèjà vu che sarebbe salutare non si riproponesse. Nelle condizioni di combinato attuale, ovvero il prevalere di elementi di ottimismo relativamente al quadro macro, l’ipotesi di un continuo aumento dei rendimenti è infatti questione legata al quando e non al se. Certo, la Fed ci ha insegnato che ormai non esiste più nulla di certo e razionale al mondo, quando parliamo di mercati. Ma esistono capisaldi che anche l’estrosa Banca centrale Usa si guarda bene dall’insolentire con la sua iconoclastia espansiva.



Ed eccoci al rischio, quello reale. E, soprattutto, al déjà vu da evitare. Il quale porta con sé un quesito tanto basico, quanto esiziale: quando il mondo si stancherà di comprare obbligazioni con il badile e a qualsiasi rendimento offerto? La risposta sta implicitamente in questo grafico, contenuto nell’ultimo report di JP Morgan: già dal prossimo anno. Ovvero, praticamente da subito, dando un’occhiata al calendario.

E anche qui, come nel caso di rendimenti e dei tassi, ecco tornare le basi: domanda e offerta. Chi ha garantito richiesta pressoché onnivora e inesauribile al mercato dei bond, finora? Le Banche centrali, Fed in testa. E sono attese a una continuazione/implementazione del loro operato: la Bce dal board della prossima settimana, la Fed da quello del 15-16 dicembre, in quest’ultimo caso attraverso una sorta di limbo transitorio dell’allungamento della maturity media acquistata che si concretizzi come atto prodromico al vero e proprio ampliamento dell’ammontare mensile, destinato nei wishful thinking del mercato a raddoppiare dagli attuali 80 a 160 miliardi di dollari già la prossima primavera. Ma cosa ci dice quel grafico? Che quanto finora fatto trapelare e già prezzato dal mercato come implementazione dei vari Qe non basta. E che, in base a questi numeri (ad esempio, i 500 miliardi in più della Bce in seno al Pepp), la domanda aggregata della Banche centrali del G4 per l’anno prossimo appare in calo di circa 1,6 triliardi di dollari.

A cui, nei calcoli di JP Morgan, va unito un controvalore di circa 1 triliardo in deterioramento dell’offerta globale, legata al calo dell’operatività su prodotti a spread da parte delle banche: di fatto, la mucca è stata spremuta tanto da essere ormai esanime. E i rendimenti in risalita sui breakevens lo testimoniano.

Unite le due componenti ed ecco che il bilanciamento fra domanda e offerta per il 2021 parla la lingua di un deterioramento potenziale da circa 600 miliardi di dollari per l’anno che inizierà fra poco meno di un mese. Potenzialmente, JP Morgan nel suo report, dopo aver appiccato l’incendio, pare correre a vestirsi da pompiere: per la banca d’affari, infatti, per controbilanciare una dinamica simile “basterà” un aumento di circa 20 punti base sui rendimenti obbligazionari nel 2021, calcolo incentrato sulla correlazione fra cambiamenti su base annua nell’eccesso di offerta e rendimenti globali aggregati registrati negli ultimi dieci anni. Nulla di ingestibile, teoricamente. Ma in quale contesto andrà a innestarsi un balzo all’insù degli yields?

Primo, quanto di questa dinamica generale è già prezzata nello 0,95% pagato a oggi dai Treasuries a 10 anni, di fatto il benchmark cui fanno riferimento tutti i mercati globali per l’iscrizione a bilancio degli assets e soprattutto da quel breakeven così alto? Secondo, quale reazione si avrà a livello di valori di VaR globali, se non solo la Fed dovesse deludere le aspettative del mercato rispetto al Qe di dicembre, ma addirittura implicitamente ammettere che gli attuali 80 miliardi al mese di acquisti cominceranno a calare, stante l’arrivo del vaccino e il piano di stimolo federale allo studio del Congresso?

Il rischio? Una replica del Taper tantrum innescato da Ben Bernanke nel maggio 2013 con la sua ventilata minaccia di ritiro anticipato (rispetto alle aspettative/speranze di mercato) dello stimolo centrale. All’epoca, se la storia insegna qualcosa, i rendimenti non si limitarono a 20 punti base di aumento come off-set dello shock da ritorno alla realtà, ma schizzarono di 150 punti base e lo shock sui valori di VaR mandò quasi al tappeto i mercati emergenti, riverberandosi in fretta al resto del mondo. E attenzione, all’epoca quello scostamento andava a impattare sui controvalori del Qe3: oggi il livello di indebitamento e leverage dell’intero sistema è enormemente più grande. Insomma, quello prospettato da JP Morgan, senza aver il coraggio di nominarlo, è il rischio di un secondo Taper tantrum ma di dimensioni titaniche. Un qualcosa che nessuno si aspettava, soltanto un mese fa. E un’ipotesi talmente catastrofica nelle sue implicazioni potenziali da vedere i governi quasi felici e sollevati nel poter utilizzare la leva del continuo stop-and-go garantito dall’emergenza pandemica per “sgonfiare” la bolla dell’ottimismo da vaccino o da fine dei lockdown, quando i rendimenti cominciano a salire e la prospettiva che si staglia all’orizzonte è quella di un Qe che comincia a declinare. Se non sparire del tutto.

Il sistema, semplicemente, non può più permettersi il lusso di tornare alla normalità. Ma per quanto potremo vivere nel mondo degli unicorni senza pagare il prezzo del biglietto?