Certe volte, in tutta onestà, mi sembra di vivere all’interno di un’infinita riproposizione di Italia-Germania 4 a 3, quasi quella partita fosse talmente metafora di un rapporto di amore e odio da non poterne uscire con un minimo di lucidità, quando l’arbitro sancisce il triplice fischio. Ovvero, vivendo il rapporto con Berlino per quello che è: necessario e decisamente profittevole, a meno di non aspirare a un modello di Italia ministeriale da anni ’60, Iri e Cassa del Mezzogiorno in bella mostra. Mi scuserete se per “difendere” la partnership fra Nord Italia e Germania, perché di questo stiamo parlando, farò principalmente riferimento al mio rispetto sacrale per il lavoro. E della serietà che ne debba accompagnare lo svolgimento, dal più umile al più “alto”. Quindi, capirete che comincio a essere stanco di certa germanofobia che olezza di mantenimento di uno status quo da film di Alberto Sordi, un tutto cambi gattopardesco che in realtà è solo necessità di rimandare all’infinito l’appuntamento del nostro Paese con i due ambiti della vita che teme di più: responsabilità e realismo.
Primo, se abbiamo un debito pubblico al 130% che ci zavorra a ogni mossa e compromette le nostre scelte “sovrane”, la colpa non è dei tedeschi. Non lo hanno accumulato loro. Come non è colpa dei tedeschi il fatto di aver potuto contare su politici mediamente più seri dei nostri negli ultimi cinquanta anni abbondanti, quando qui il Pentapartito nelle sue varie forme e mutazioni genetico-parlamentari campava di mance, mancette e prebende per tenere assieme uno Stato già disfunzionale.
Secondo, la realtà. E qui, scuserete la volgarità del mio ragionamento, faccio entrare in campo cifre, numeri e grafici. Per come sono fatto, infatti, parlare di economie e finanza senza citare mai nemmeno una singola percentuale, mi fa sempre drizzare le antenne, quasi una bandiera rossa a segnalare un pericolo di supercazzola all’orizzonte. Il 9 aprile scorso, in collegamento Skype in ossequio alla quarantena di coronavirus, la Camera di Commercio Italo-Germanica (AHK Italien) ha presentato i dati relativi alla partnership economica bilaterale nel 2019 e i risultati dell’indagine globale “AHK World Business Outlook” sulle prospettive delle imprese italo-tedesche nel nostro Paese, con un occhio di riguardo proprio al fall-out della crisi da Covid-19. Vediamoli, questi dati, per sommi capi.
Nel 2019, il volume dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania si è mantenuto sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente, attestandosi su un totale di 127,7 miliardi di euro (-0,5% rispetto al 2018). Stando ai dati Istat, invece, lo scorso anno le esportazioni italiane verso la Germania hanno toccato quota 58,1 miliardi di euro (-0,1% rispetto al 2018), mentre il valore delle importazioni si è attestato a 69,6 miliardi di euro (-0,8% sul 2018). Tradotto per i non udenti a causa di sovranismo congenito? La Germania si conferma primo partner commerciale per l’Italia, consolidando anche il netto distacco dal secondo posto, occupato dalla Francia con 86,4 miliardi di euro.
Tra i partner della Germania, l’Italia mantiene invece la quinta posizione raggiunta nel 2018, ampliando il divario rispetto al Regno Unito, il quale rispetto all’anno precedente perde un’altra posizione a favore della Polonia (miracoli della Brexit, a proposito di sovranismi). “Dopo quattro anni consecutivi segnati ciascuno da un nuovo record della nostra partnership economica, registriamo ora un 2019 nel segno della stabilità. La tenuta dell’interscambio commerciale tra i nostri Paesi anche a fronte del rallentamento della locomotiva tedesca e dell’economia globale nel suo complesso è la riprova di un rapporto di collaborazione solido e radicato”, ha commentato Jörg Buck, Consigliere delegato della AHK Italien.
A livello regionale, come mostra il grafico, si confermano particolarmente positive le performance dei territori che svolgono tradizionalmente un ruolo di traino dei rapporti commerciali bilaterali: le regioni del Nord Italia (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna in testa) e i Land più industrializzati (Baviera, Baden-Württemberg e Renania Settentrionale-Vestfalia), attori regionali italiani e tedeschi con un peso relativo in termini di interscambio superiore a quello di interi Paesi. Sicuramente, di quello dei drenatori di fondi europei e operatori di dumping salariale e fiscale riuniti sotto le insegne di Visegrad, magicamente spariti dalle foto di famiglia dei sovranisti nostrani, forse troppo impegnati a dichiarare guerra all’Olanda.
Perno della partnership commerciale italo-tedesca, come mostrano i grafici, è la produzione industriale e i flussi principali riguardano i settori dell’automotive, dei macchinari, del chimico/farmaceutico e dell’elettrotecnica/elettronica: la corrispondenza tra i principali settori di export dei due Paesi conferma ancora una volta l’esistenza di un legame di co-produzione e interconnessione.
E ora, come rischiano di cambiare gli equilibri a causa della crisi da Covid-19? Attraverso un quick survey diffuso a inizio marzo tra i soci e ripetuta a distanza di un mese, la AHK Italien ha sondato la percezione della business community italo-tedesca nel nostro Paese rispetto agli effetti della diffusione del virus. Se a inizio marzo era il 26% dei rispondenti a segnalare un impatto della situazione sanitaria sulle attività aziendali, ad aprile è stato il 73% delle imprese a ravvisare un effetto sul proprio business: addirittura con il 64% delle aziende che ora dichiara di aver sospeso parte dell’operatività a seguito delle misure di contenimento. Di più, la diffusione della pandemia si manifesta a livello economico soprattutto con un calo della domanda di prodotti e servizi, un effetto sottolineato dal 75% dei rispondenti: una prospettiva che si sostanzia nel timore per più della metà delle imprese di perdite potenziali tra il 10% e il 50% sul fatturato 2020.
Di conseguenza, se nella prima edizione del sondaggio la stima prevalente sui tempi di ripresa faceva riferimento a un arco temporale di tre mesi, ora l’atteggiamento generale si è fatto giocoforza più cauto e quasi la metà (48%) dei rispondenti non si aspetta di tornare al normale regime di attività prima di sei mesi. Per Gerhard Dambach, presidente della AHK Italien, “questo momento di difficoltà ha una complessità tale da richiedere due diversi livelli di intervento. Da un lato, le aziende chiedono un sostegno deciso e immediato per poter ripartire al più presto, facendo tesoro degli asset – come la digitalizzazione e lo smart working – che hanno permesso alle aziende di non fermarsi completamente. Dall’altro lato, è necessaria una forte unione d’intenti e un grande sforzo a livello europeo per garantire le migliori misure per la tenuta dei sistemi economici di tutti i Paesi. Italia e Germania stanno collaborando attivamente e a supporto l’una dell’altra anche in questo momento. Siamo le due prime economie manifatturiere europee e mai come ora abbiamo il dovere di trainare le scelte economiche per dimostrare che uniti possiamo far tornare a prosperare la joint-production italo-tedesca, a vantaggio di tutti”.
Di cosa stiamo parlando, quindi, quando dipingiamo la Germania come distruttore di valore aggiunto italiano? Pensate davvero che Berlino abbia mire di takeover su quei comparti produttivi del Nord, sfruttando la debolezza da lockdown forzato che sta cominciando a fiaccare la parte produttiva del nostro Paese, unita a una burocrazia da Unione Sovietica che ancora oggi non ha sborsato un euro a chi sta patendo le chiusure e i fermi obbligati, fra siti Internet che collassano e banche che giocano a rimpiattino di responsabilità con il Governo?
A proposito di Germania, guardate questo schema, pubblicato dalla non tedesca Bloomberg: ecco cosa uno Stato efficiente e non indebitato fino al collo ha messo a disposizione di cittadini e imprese dal primo giorno del lockdown, con pochi e rapidi passaggi via Internet e senza tante trafile. Soldi già sui conti correnti, fabbriche che – di fatto – non hanno mai smesso di lavorare del tutto.
Signori, gli stessi giganti dell’auto tedeschi hanno chiesto alla Merkel di aiutare l’Italia in sede Ue, poiché senza la componentistica che si produce nel Nord Italia, sono bloccati anche loro. È questa, a vostro avviso, la strategia di conquista germanica dell’Italia? Quelli sono i cinesi, i quali arrivano carichi di contanti stampati dalla loro Banca centrale in stile tipografia Lo Turco e cominciano a strangolare le aziende in difficoltà, prima entrando come soci di minoranza e poi scalando a colpi di aumenti di capitale, insostenibili per i soci italiani. Gli stessi cinesi che piacevano tanto al Governo giallo-verde, il quale infatti ha ben deciso di firmare un memorandum totalmente inutile a livello economico, i cui costi politici e diplomatici stiamo invece pagando già ora molto caramente. Io capisco che molte posture anti-tedesche siano in realtà dissimulazioni di una coda di paglia infinita, ma, cari lettori, ora è il momento dei fatti e del realismo. Perché questo Paese rischia davvero di chiudere per sempre. E non certo per colpa della Germania. Anzi.
Sapete qual è il problema, reale? Che l’atteggiamento rigido di Berlino in sede Ue si sta accompagnando a una secessione di fatto in atto nel nostro Paese, con le Regioni del Nord – le stesse che vantano un cordone ombelicale produttivo con la Germania – che premono per ripartire e il Governo centrale che fa di tutto per mettere politicamente i bastoni fra le ruote, a colpi di burocrazia infinita e dispetti infantili sulla pelle dei cittadini. Temo, sempre di più, che la germanofobia imperante sia soltanto la reazione istintiva di fronte a un dato di fatto sempre più chiaro: avanti di questo passo, ciò che era nei progetti e nei sogni di Umberto Bossi verrà raggiunto nella realtà dall’azione politica indiretta di Angela Merkel in sede Ue. E dal coronavirus, accelerante di una divaricazione de facto di un Paese da sempre a due velocità. Guardiamo in faccia la realtà, anche alla luce dell’elezione spartiacque del milanese Carlo Bonomi – già presidente di Assolombarda – al vertice di Confindustria: se c’è qualcuno che ha tutto da guadagnare politicamente da uno scontro che indebolisca Lombardia e Veneto non è certo la Germania, anzi. È Roma, intesa come potere centrale che rivendica la bontà del reddito di cittadinanza e del controllo assoluto sulle scelte economiche (non a caso, i sindacati confederali osteggiano strumentalmente ogni mossa messa in campo dalla Regione Lombardia in tal senso), a fronte di PMI del Nord che scalpitano per riaprire. E sopravvivere, lavorando.
Può essere sgradevole, gretto, volgare, poco poetico e ancor meno patriottico ma lo scontro in atto è questo, paradossalmente più feroce di quello sfociato ai tempi in cui il Senatur radunava un milione di persone sul Po e invocava la secessione. Allora, infatti, erano solo parole, condite da ridicola ritualità celtico-padana. Qui si parla di fatturato, prestiti bancari, stipendi e tasse da pagare, profitti e spese. Saracinesche abbassate che rischiano di non rialzarsi più. ‘ il “sale della terra”, la stessa materia di cui è fatto il Nord produttivo che presenta quei livelli di interscambio con la locomotiva d’Europa, l’odiata Germania. La quale, non vuole scalarci (quello lo fanno i francesi, altri statalisti da primato olimpico, con cui non a caso si pensava di fare asse contro Angela Merkel), vuole soltanto comportarsi come fanno i partner seri: dicendoci in faccia ciò che a suo modo di vedere non va nel nostro comportamento. E fissando dei paletti ben chiari rispetto a quanto è disposta ad accettare: ad esempio, una Bce modello Fed, mai.
Guardate questo grafico, poi: ci mostra come per la quinta settimana di fila, le posizioni ribassiste sul dollaro abbiano continuato a crescere fra gli investitori speculativi. Solo nella settimana appena conclusa, contratti aperti per altri 833 milioni, i quali hanno portato il totale a 10,6 miliardi di dollari, stando a calcoli di Scotiabank. E qual è a vostro modo di vedere il driver di quelle scommesse al ribasso sul biglietto verde? Ovviamente, il fatto che la Fed operi in modalità tipografia Lo Turco, tramutando il dollaro in carta igienica. Nemmeno a dirlo, tutti di conseguenza scommettono su un apprezzamento dell’euro.
E cosa ne sarà dell’export europeo, già messo a durissima prova dal Covid-19, se per caso dovesse perdere anche competitività a livello di cambi, stante il dumping della Fed? Chiedetelo ai detrattori della Germania e agli adoratori di Donald Trump e della Federal Reserve, se vi capita l’occasione. E vi siete mai chiesti, per finire, perché fra i germanofobi più attivi ci sia il senatore Matteo Salvini? Chissà che il Nord produttivo, quello che fino a pochi anni fa lo stesso leader della Lega sognava di vedere farsi Stato indipendente e che nei rapporti commerciali con la Germania vanta un punto di forza assoluto ed esiziale, prima o poi non presenti il conto all’anti-germanesimo da film dei Vanzina del Carroccio e dei suoi due economisti di riferimento. Non manca molto, vi assicuro. Perché la rabbia di chi lavora, sta montando di giorno in giorno, al di sopra del Po. E lo sapete meglio di me, occorre temere come la morte l’ira dei mansueti.