Ve lo avevo detto che quello appena iniziato sarebbe stato un anno da fuochi di artificio e non c’è voluto molto per avere la prima, rumorosa conferma. La morte del generale Soleimani nel raid Usa contro l’aeroporto di Baghdad è soltanto l’inizio, una società polarizzata come quella statunitense necessita di ulteriore aumento delle tensioni geopolitiche per trovare uno sfogo esterno che permetta al Paese di arrivare alle urne di novembre con il giusto grado di tensione politica, ma senza il sangue nelle proprie strade. Quindi, si fa ciò che si conosce meglio: esportare caos, travestendolo da democrazia. O vendetta in suo nome. Nulla di nuovo.



E anche tutti gli attori internazionali che ora paiono gridare spaventati per il surplus di miccia che si è voluto incendiare sotto la polveriera mediorientale rispondono a una logica da gioco delle parti, consolidata: volete dirmi che Iran, Egitto, Lega Araba, Russia, Siria e Turchia fino a oggi hanno lavorato alacremente per la stabilità dell’area e non in nome dei propri interessi geopolitici? Volete dirmi che Recep Erdogan, lo stesso che ha ottenuto il via libera del suo Parlamento all’intromissione de facto e boots on the ground del suo Paese nella vicenda libica, è uomo di pace e dialogo fra le parti? Signori, non prendiamoci per i fondelli. Piuttosto che stare dietro al bla bla delle minacce e al coro indignato delle anime candide, pensiamo a cosa si cela dietro al silenzio.



Cosa vi avevo detto riguardo ai troppi frettolosi de profundis che si stavano recitando attorno alla figura di Bibi Netanyahu? Come volevasi dimostrare, l’uomo che tutti davano per politicamente morto e superato è ancora saldamente in sella, candidato con oltre il 70% dei consensi del Likud alle prossime, ennesime elezioni. E con lui, la sua agenda. La quale, ovviamente, presuppone una buona dose di caos. Quantomeno, Israele nei suoi mille difetti, non è un Paese ipocrita. Ha sempre posto la sua sopravvivenza e la sua prosperità in cima alla lista prioritaria, qualsiasi sia il prezzo che questo imponga a chi si pone sulla sua strada. E Israele, non a caso, si è finora esentata dal coro internazionale di alti lai per l’uccisione del generale iraniano. Tace. E lavora.



Già, perché poche ore prima del raid Usa in Iraq, i governi di Grecia, Israele e Cipro hanno firmato l’accordo per la costruzione del gasdotto Eastmed. Un’intesa che prevede – caso più unico che raro – anche un articolo sulle misure di difesa del condotto, che dovrebbe portare il gas naturale estratto dalle acque territoriali di Israele e Cipro verso l’Europa. Italia compresa, con punto di approdo probabilmente a Otranto, M5S permettendo. Ma non è l’unica caratteristica a indicare il senso strategico dell’intesa: Grecia, Cipro e Israele delineano anche un sistema fiscale unico per la costruzione di EastMed, la prospettiva di includere altri Paesi nell’intesa e quello di lavorare insieme per sfruttare giacimenti che possano essere scoperti in futuro. In più, eventuali riserve di gas scoperte a sud di Creta verranno collegate al gasdotto. L’alleanza tra i tre Paesi serve anche a mandare un forte messaggio alla Turchia, la quale contesta il diritto di Cipro – ovvero la Repubblica cipriota, l’unica riconosciuta dalla comunità internazionale, a differenza della Repubblica turco-cipriota, riconosciuta solo da Ankara – a sfruttare i giacimenti di petrolio e gas nelle acque della Zona economica esclusiva (Zee) cipriota. Insomma, geopolitica energetica ai massimi livelli. E con un chiaro segnale a Erdogan: attenzione a ogni possibile mossa fuori luogo, ad esempio a un nuovo invio di navi da guerra al largo di Cipro. Perché quell’articolo che sancisce misure di difesa del condotto, permette ai tre governi – leggi Israele – di reagire militarmente.

Il contesto nell’area a ridosso del Medio Oriente, signori, è questo. Interessi economici e strategici enormi. Come quelli di chi, magari, ieri ha brindato al raid Usa sull’aeroporto di Baghdad, perché era long sul prezzo del WTI e il balzo di oltre il 5% delle valutazioni del greggio gli ha portato un bel regalo di inizio anno. Si sa, il comparto energia è quello maggiormente “affollato” di potenziali fallen angels, ovvero aziende al limite del rating investment grade che potrebbero precipitare nel junk e dar vita a un bell’effetto palla di neve: niente di meglio che una bella impennata del prezzo del petrolio, quindi, per far passare un po’ la paura. E per quanto l’atto paia eclatante, la morte del generale Soleimani è un’assicurazione sulla vita per chi necessita di una tensione a bassa intensità di lunga durata nell’area. Quindi, petrolio che torna appetibile.

Un qualcosa che, ad esempio, farebbe comodo – come l’ossigeno a un murato vivo – a un altro attore molto silente nella giornata di ieri: l’Arabia Saudita, eterno nemico dell’Iran e soprattutto collocatore più che preoccupato del 5% di Aramco in Borsa. Se schizza in alto il petrolio, passa la paura anche riguardo l’esito dell’operazione di Ipo del gigante energetico. È un enorme, spaventoso intreccio di interessi sovrapposti. Ve lo dico da tempo che a questo mondo in troppi stavano giocando con i fiammiferi vicino a un distributore di benzina, oggi cominciamo a vedere i primi incendi. Ce ne saranno altri, state certi. E temo che, non potendo permettersi nessuno una disputa diretta fra Usa e Iran, il prossimo proxy generale che servirà a capire chi comanda sarà proprio la Libia, con tutte le conseguenze dirette che questo può avere per il nostro Paese, in primis a livello di gestione di eventuali flussi di profughi.

Vi fa paura questa situazione? Meglio che ci facciate l’abitudine. Perché l’anno è appena iniziato e per arrivare alle presidenziali di novembre negli Usa ci vuole un sacco di tempo. Sapete di cosa occorre avere paura, in realtà? Di due cose, a mio avviso. Primo, il fatto che in una situazione simile l’Italia schieri Luigi Di Maio a guida della Farnesina. Ci conviene arrenderci e offrirci da subito come ostaggi volontari, facciamo più bella figura e recitiamo una parte che almeno ci vede preparati da una cinquantina d’anni. Secondo, questo. Direte voi, cosa diavolo c’entra il titolo azionario di Apple con la situazione geopolitica del Medio Oriente?

Tout se tient, ricordatevi. Nel giorno in cui il Pentagono faceva partire il conto alla rovescia per colpire l’Iran in territorio straniero, a Wall Street il titolo dell’azienda di Cupertino segnava un record pressoché assoluto e totalmente folle, un proxy perfetto del delirio in cui viviamo e che rende necessario il caos generale per trovare sfoghi emergenziali (leggi le Banche centrali in operatività) che lo sostengano. Giovedì Apple ha guadagnato il 2,4%, proprio nel giorno del primo anniversario dal pre-annuncio di downgrade sugli utili. È stato il miglior giorno di contrattazioni dal 1 novembre scorso, tanto da aver portato il livello di acquisto del titolo a un overbought che non si vedeva da settembre 2018. Sapete di quanto ha visto aumentare la sua capitalizzazione Apple soltanto giovedì scorso, in un singolo giorno? Più di 31 miliardi di euro. Per mettere la questione in prospettiva, l’aumento di market cap della sola Apple il 2 gennaio è stato superiore a quello di 301 aziende quotate sullo Standard&Poor’s 500 messe insieme. In un anno, ovvero da quando l’azienda dell’iPhone ha comunicato al mercato utili più bassi del previsto, il market cap è aumentato di 660 miliardi di dollari. Insomma, un titolo che porta con sé risultati operativi peggiori del previsto va in rally come se avesse scoperto la cura per il cancro: vi pare un mercato normale, una situazione normale, un mondo normale?

Pensate che un sistema come questo, reso possibile unicamente dalla Fed e dalla sua ricetta di monetizzazione strutturale e diretta del debito, possa andare avanti senza guerre, senza destabilizzazione, senza tensioni, senza warfare e vendita di armi e tecnologie militari? Cosa pensate che sia Apple per il “mercato”, solo il produttore di computer e smartphone più famoso e iconico del mondo? No, è il corrispettivo moderno e 2.0 di Ford negli anni Sessanta, rappresenta e incarna di fatto l’America. È il benchmark di sistema degli Usa come attore primario a livello globale: parafrasando una frase storica, ciò che è giusto per Apple, è giusto per gli Stati Uniti. E cosa ci dice il grafico che ho pubblicato? Che insieme al titolo, sta salendo anche la volatilità a esso legata: la linea rossa del VIX va infatti letta al contrario, invertita. Tutti rialzisti esposti maniacalmente a leva che stanno comprando quel titolo perché tanto sanno che è troppo establishment e sistemico per poter mai crollare? Oppure all’orizzonte stanno saltando fuori i primi hedgers, ovvero soggetti che cominciano a coprirsi proprio dal rischio che Apple non possa continuare a viaggiare su valutazioni fuori dal mondo come quelle attuali?

Se cade Apple, cade tutto. Non solo Wall Street, cade l’America e il suo sogno basato su debito, espansione dei multipli, buybacks e Qe sistemico: cade il sistema, cade Matrix. Cadiamo tutti. Pensate che le guerre saltino fuori così, senza una motivazione più profonda della contrapposizione fra Usa e Iran che dura dai tempi di Jimmy Carter? Scusate, non parliamo degli stessi Usa e Iran che non più tardi di due settimane fa si erano scambiati prigionieri, salutando come gesto di distensione questa scelta di compromesso e buona volontà diplomatica? Volete dirmi che tutto è precipitato così in fretta per caso? Volete dirmi che l’assalto all’ambasciata Usa che ha portato alla rappresaglia americana sull’aeroporto di Baghdad non ricorda terribilmente l’assalto alla sede diplomatica statunitense di Bengasi l’11 settembre (data vagamente evocativa) 2012, con tutti i suoi lati oscuri ancora oggi custoditi gelosamente solo nelle mail di Hillary Clinton e a Langley? Siamo già in guerra, mettetevi comodi. Perché lo spettacolo è solo all’inizio.