Avete notato come la notizia della mega-multa inflitta dall’autorità irlandese per la privacy a Meta sia passata pressoché sotto silenzio, dopo una capatina iniziale nelle breaking news? Eppure, la tabella qui sotto ci mostra come la sanzione di Dublino verso il braccio armato di Facebook sia di gran lunga la più pesante mai comminata da quando esiste il Gdpr, quasi il doppio di quanto richiesto dal Lussemburgo ad Amazon.



Ora, cos’è il Gdpr? E qual è l’accusa rivolta a Meta? Quell’acronimo sta per General Data Protection Regulation, la regolamentazione della protezione dati europea entrato in vigore nel 2018. L’accusa dell’Irish Data Protection Commission? Trasferimento di dati personali di utenti europei negli Usa. Big Data? Semplice spionaggio industriale a favore di major attraverso profilazioni-pirata dei consumatori/utenti del Vecchio continente? E la tabella parla chiaro: dall’entrata in vigore del Gdpr, le aziende tech sono state il bersaglio preferito. Ora, perché la mega-multa di Meta è sparita a tempo di record, persino e soprattutto dai trend virali dei social?



Primo, al netto della possibilità di fare ricorso ed eventualmente patteggiare un accordo, l’entità di quelle sanzioni rimane comunque risibile rispetto alle revenues di certi colossi. Insomma, se per tortura si intende il solletico sotto i piedi, Guantanamo è lontana. Secondo e più importante: un probabile – ed ennesimo – gioco degli specchi e delle ombre. A lanciare questa ipotesi, prima ancora che venisse resa nota la multa contro Meta, il guru degli analisti di Bank of America, Micheal Hartnett, nella sua ultima newsletter. Ecco il concetto principale espresso: Aspettiamoci una spinta verso nuova e apparentemente più stringente regolamentazione e un contemporaneo, rinnovato impulso globale verso politiche di reddito di base universale (UBI), queste ultime finanziate dalla manna inaspettata di tassazione delle corporations o da una politica di controllo della curva dei rendimenti (YCC) della Fed.



Traduzione dell’intera faccenda, quasi a voler sintetizzarla come fosse metanfetamina da Qe perenne? Semplice, l’assunto di base verso cui si muove il Sistema sarebbe l’imposizione dell’intelligenza artificiale non solo come metodo di implementazione per produttività e ricerca, ma bensì come cavallo di Troia per una trasformazione dei regimi di welfare emergenziale in ordinari. Insomma, se l’AI produrrà nuove e sempre più ampie schiere di disoccupati, occorrerà pensare a sussidi di massa su base universalistica. E questo a cosa porterà, di fatto? Alla necessità di una Fed (e una Bce) giapponese che imponga – più o meno ufficialmente – una politica di controllo sulla curva dei rendimenti, un cap da difendere come la linea Maginot. Esattamente come la Bank of Japan, la quale in ossequio a quel target quasi millenaristico opera da prestatore di unica istanza per l’obbligazionario e anche l’azionario via Etf.

La multa a Meta? Solo uno stress test. Tanto per abituare la claque. La quale, si sa, necessita sempre di nuove cortine fumogene per essere distratta a dovere dalle reali priorità e dagli allarmi degni di nota. Del G7 appena concluso in Giappone, ad esempio, nessuno in realtà ha capito i concreti risultati ottenuti. Né le decisioni prese. Certo, la mossa degli F16 occidentali a Kiev rischia di coinvolgere direttamente e ufficialmente la Nato nel conflitto, ma la storia recente ci ha insegnato come tra proclami e fatti corra in mezzo un oceano. Bakhmut insegna. Provate a digitare quel nome sul motore di ricerca di Google: il primo risultato è già Artemivs’k, il nome in russo. Seguito dalla beffarda definizione Città in Ucraina. Forse l’intelligenza artificiale e gli algoritmi sono più realisti (e onesti) del Re che li governa.

In compenso, è passata totalmente sotto silenzio la dichiarazione di Joe Biden a latere dell’incontro ufficiale: Gli Usa intendono aprire maggiori linee di comunicazione con la Cina. Lo stesso Paese che in contemporanea avvisava per l’ennesima volta il G7 di come Taiwan fosse questione interna. Su cui sarebbe saggio evitare di mettere il becco. Perché allora la Casa Bianca abbozza? Perché poche ore prima, la Cyberspace Administration of China aveva emanato un ordine di divieto per le principali aziende tech di operare con il produttore di microchip statunitense Micron per “rischi legati alla sicurezza nazionale”. E il grafico mostra come i big del settore Usa dipendano pesantemente dal mercato cinese a livello di revenues. Ma, soprattutto, svela il carattere apparentemente simbolico del gesto: Micron è infatti l’azienda meno esposta sulla Cina rispetto ai concorrenti a stelle e strisce. E, soprattutto, Pechino l’avrebbe colpita perché le sue aziende possono comprare componentistica identica da Samsung o SK Hynix.

Ma ecco che, interpellato dal Wall Street Journal, Lester Ross, avvocato d’affari presso la WilmerHale a Pechino e specializzato proprio nel fornire assistenza alle aziende Usa che operano in Cina, mette tutti in guardia: L’impatto di questa mossa potrebbe rivelarsi a più ampio spettro di quanto inizialmente abbiamo creduto. Certo, la dichiarazione dei Sette Grandi in favore di azioni concrete nel controllo e regolamentazione più stringenti verso il trasferimento di tecnologie sensibili in Cina può aver irritato Pechino e spinto Xi Jinping a una reazione immediata. Ma il rischio è altro, se concentriamo la nostra attenzione sul caso Italia. Ovvero, un Governo apparentemente pronto a stracciare il memorandum d’intesa con la Cina firmato dal Conte-1 e un export verso il Dragone che nel primo trimestre di quest’anno ha fatto boom.

Pechino pare intenzionata, almeno per ora, a colpire i cosiddetti soft targets, evitando sanzioni ad ampio spettro e potenziali rotture commerciali sistemiche. Ma se un settore come quello dei microchip Usa può sostenere una guerra di nervi e anche di sanzioni, il tessuto produttivo italiano come reagirebbe anche al più chirurgico e simbolico degli atti ostili di un gigante commerciale? E nella sola Emilia-Romagna già messa in ginocchio dall’alluvione, sono oltre 70 gli investimenti diretti di Pechino. Se invece l’interessata affinità elettiva con l’attuale Governo – o, quantomeno, alcune sue componenti – impone un cambio di narrativa che presupponga aprioristiche lenti color rosa con cui filtrare la realtà, allora accontentiamoci pure della ridicola Schadenfreude generata da quattro dati macro meno peggio – e ripeto e sottolineo, meno peggio e non meglio – di quelli tedeschi o francesi.

Attenzione, perché i cicli sono ristretti. Durano meno di tre mesi. E potrebbero arrivarci addosso senza preavviso. Rovinando i patetici festeggiamenti di chi nemmeno adesso ha il coraggio di ammettere che il Pnrr equivale al Sarchiapone di Walter Chiari. E che il tempo sta per scadere.

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