Settimana scorsa un report di Moody’s analytics ha concluso che alle prossime elezioni presidenziali americane Trump vincerà facilmente con un distacco minimo di 40 voti e massimo di più di 160 sui 538 collegi totali. Il modello di Moody’s ha predetto correttamente tutti i risultati delle presidenziali americane dal 1980 a oggi con l’unica esclusione delle elezioni del 2016, in cui si prevedeva una vittoria di stretta misura di Hillary Clinton. Le conclusioni del report danno “ufficialità” a una sensazione che in realtà traspare in modo chiaro quando ci si prenda la briga di ascoltare la pancia dell’elettorato americano.



A dodici mesi dalle elezioni presidenziali bisogna prendere queste previsioni per quello che sono e cioè una fotografia della situazione attuale. Dodici mesi in questa fase sono lunghissimi, ma si possono tirare alcune conclusioni. Il “Russiagate”, le accuse di “razzismo”, la grande stampa “schierata” contro Trump non hanno modificato le intenzioni di voto in modo significativo. Trump oggi invece può vantare un’economia che “tira” con una disoccupazione ai minimi di sempre, un mercato ai massimi, e persino il mantenimento delle promesse di ritirare i militari da guerre combattute dall’altra parte del mondo in posti che l’americano medio non saprebbe neanche mettere sulla cartina. Capiamo perfettamente che la situazione è più “complicata” e “ricca di sfumature” di questa, ma questo è il messaggio che passa oggi.



In campo democratico l’ex favorito e numero due di Obama, Biden, con ogni probabilità non si riprenderà più, politicamente, dallo scandalo “Ukrainegate”. Infatti, la favorita per la nomination democratica oggi si chiama Elizabeth Warren, politica di lunghissimo corso, dal Massachusetts, ma che non dà particolari garanzie in una battaglia all’ultimo sangue con Trump. È facilmente attaccabile, dal caso delle origini “nativo americane” passando per un racconto della propria carriera che non è sempre stato “fedelissimo alla realtà”. In più si nutrono preoccupazioni sulla sua capacità di parlare ai cittadini dell’America profonda venendo da una delle “liberal bubble” per eccellenza. Ci sarebbe ancora Bernie Sanders che però l’anno prossimo avrebbe 79 anni e non gode di ottima salute.



Ai margini del dibattito rimane la sempiterna Hillary Clinton, che assiste ai candidati democratici che si scannano con scadenza regolare nei dibattiti pre-elettorali. Hillary Clinton è un “outsider” per modo di dire. La sua candidatura sarebbe una sorpresa solo per gli osservatori distratti. Di certo non le mancano le connection dentro il partito democratico, come dimostrato inequivocabilmente nell’ultima corsa alla nomination, e fuori dove conta. Non è un candidato in grado di entusiasmare le masse popolari, per usare un eufemismo, ma potrebbe importare molto poco. È spassosissima, tra l’altro, la polemica tra Tulsi Gabbard, che ha detto l’indicibile, e Hillary Clinton di questi giorni.

Sulla presidenza Trump incombono almeno due spettri che potrebbero cambiare tutto. Il primo è la vulnerabilità dell’attuale contesto economico-finanziario. Il rallentamento della crescita e l’entrata in recessione di qualche pezzo da novanta dell’economia globale potrebbero presentare il conto tra un paio di trimestri. Forse è per questo che ieri Elizabeth Warren se l’è presa, indirettamente, contro la Fed che oggi tiene i mercati in una bolla artificiale separata dalla “economia reale”. Il secondo spettro è quello dell’impeachment. Quello che conta in questo caso è che c’è una parte importante del partito repubblicano che mal sopporta Trump e che con il giusto quadro potrebbe essere “costretta” a votare un impeachment. Oggi il supporto popolare a Trump sconsiglia mosse che sarebbero lette come tradimenti, ma se il gradimento, per qualsiasi ragione, cominciasse a scendere tutto diventerebbe possibile.