Siamo entrati nella fase più pericolosa in assoluto. Quella della negazione della realtà elevata a motore immobile. Dell’azione politica, così come della price action di mercato. Christine Lagarde giovedì ha provato a ridimensionare l’euforia innescata dai rumors riguardo un rallentamento nel rialzo dei tassi da parte della Bce, parlando chiaramente di un’inflazione ancora troppo alta e che rende necessario proseguire nell’azione di raffreddamento. Nulla da fare. Nonostante le Borse in rosso, lo spread è rimasto in area 170 punti base. Il mercato prezza un’Eurotower colomba dopo il board di febbraio. Dal quale, oltretutto, è atteso un rialzo di soli 50 punti base. Quanto è auto-alimentante – e quindi potenzialmente fallace – questa prospettiva?



Tanto. Troppo. Certo, i futures americani mostrano una Fed che da maggio bloccherà tutto e che a Jackson Hole annuncerà l’avvio del taglio dei tassi. Ma qui la questione è differente. Qui occorre guardare ai meandri del cosiddetto deep market, i veri players. Quelli che nessuno conosce, se non gli addetti ai lavori. Come ad esempio, AllianceBernstein, gestore patrimoniale con sede in Tennessee. Il quale ha scoperchiato il vaso di Pandora, affermando chiaro e tondo che – stante il regime espansivo che la Bank of Japan non appare intenzionata a rivedere e il continuo varco del Rubicone della politica di controllo sul rendimento del decennale, come mostra questo grafico -, d’ora in avanti sarà unicamente la liquidità a tracciare il solco. In caso di deterioramento, bond nipponici fuorigioco.



E attenzione al messaggio in bottiglia che è arrivato da Nashville: quell’ultimatum era pressoché contemporaneo alla conferma da parte dell’agenzia Nikkei del countdown prima della sovietizzazione totale del mercato obbligazionario giapponese. Con la Bank of Japan che questo mese potrebbe acquistare bond per 300 miliardi di dollari di controvalore, praticamente un diluvio di Qe in un mondo che alza i tassi come mostra questo altro grafico la cruda realtà è quella che vede ancora 33 settimane di collaterale garantito.

Ovvero, fra 33 settimane o poco più, nessun bond nipponico sarà più in mano privata. Tutto in pancia alla BoJ, come mostra questo ultimo grafico. La quale, poi, dovrà trovare qualcosa da acquistare. Magari l’aria. Prima che il mondo intero decida giocoforza di chiamarsi fuori – esattamente come minacciato da AllianceBernstein senza troppi giri di parole – da un club privato che non prevede soci. Se non il padrone di casa. A quel punto, gioco a somma zero. Ma, soprattutto, assoluta navigazione in uncharted territory.



Sarà per questo che il Governo nipponico ha recentemente rilanciato la notizia, vecchia di tre anni, dell’inizio delle estrazioni di terre rare dal fondo marino a partire dal 2024? Probabilmente sì. Peccato che aver stanziato per la fase preliminare dei lavori solo 140 milioni di dollari abbia implicitamente tradito la natura di bluff dell’operazione. Un po’ come la straordinaria scoperta dei giacimenti svedesi, i quali – messi in prospettiva con quelli cinesi – garantiranno all’Europa un weekend scarso di autonomia.

Ma il Giappone ha una sua Banca centrale e una sua politica monetaria, folli che siano entrambi. E può tentare la sorte, come d’altronde sta facendo da oltre un decennio, forte di un ruolo dello yen nel carry trade globale e di investitori interni che sono felici dello 0,001% che ottengono dagli investimenti in bond sovrani. L’Italia invece dipende già oggi e in toto dagli acquisti della Bce, altrimenti game over. Come dimostrano i rendimenti in asta, già fuori linea rispetto a quelli sul secondario che godono dello schermo implicito del reinvestimento. E come dimostrano le continue offerte speciali legate ai titoli di debito con cui si cerca di accalappiare, di volta in volta e di emergenza in emergenza, il pubblico retail interno. Insomma, buona roulette russa.

Perché c’è da temere? Guardate questa notizia, passata pressoché sotto silenzio.

Voi credete che davvero PriceWaterhouseCoopers, leader mondiale nell’audit e nella consulenza, fosse convinta che il Governo cinese l’avrebbe messa in condizione di operare al meglio, quando decise di accettare di passare ai raggi X i bilanci di Evergrande? Davvero il suo addio all’incarico va ricercato nella constatazione che, in realtà, Pechino intende proseguire nella contrapposizione muro contro muro, quando si arriva al redde rationem sui conti del suo gigante sistemico dai piedi d’argilla?

Domande magari accademiche. Ma che portano in dote risvolti impossibili da ignorare. Primo, il timing. Dopo mesi e mesi di apparente lotta contro i mulini a vento, PWC ha gettato la spugna solo una settimana dopo la comunicazione informale da parte del Governo cinese di un drastico ammorbidimento delle cosiddette red lines regolatorie sul leverage nell’ambito del real estate decise nell’agosto del 2020. Atto, quest’ultimo, che Xi Jinping compì d’imperio proprio per rassicurare i mercati rispetto alla condizione di Evergrande, arrivando addirittura a paventare soluzioni da extrema ratio come il carcere per chi violasse il divieto di partecipazione del private equity nell’edilizia residenziale.

Secondo, Pechino non ha fatto un plissé. Anzi, ha immediatamente comunicato di aver affidato l’incarico alla Prism Consultancy Solutions di Hong Kong, azienda di consulenza e audit con pressoché nulla esperienza in ambiti simili, poiché a oggi avrebbe curato le revisioni solo di tre compagnie quotate. E tutte molto piccole. E. comunque, non certo sistemiche come Evergrande. E non con un carico debitorio da 22,7 miliardi di dollari solo offshore, fra prestiti e bonds privati.

Terzo e più importante: a fronte di un atto simile da parte di un leader assoluto del settore come PWC, ovvero l’impossibilità di certificare i bilanci per – apparente – totale mancanza di collaborazione e trasparenza della controparte, perché sul mercato e sui media non è partito immediato il refrain del default, lo stesso che per settimane ha ammorbato l’aria con il suo carico di ipocrisia tutta politica? Cosa garantisce oggi alla Cina di Xi Jinping la possibilità di operare in assoluta libertà e autonomia, persino a fronte di un dato demografico spartiacque come quello appena diffuso, senza che indici e rendimenti si permettano di reagire? La Cina e il suo moloch immobiliare sono davvero too big to fail e alle soglie di un passaggio esiziale oppure il reset geopolitico in atto ha silenziosamente messo la Cina in condizioni di dettare legge non solo nei consessi politici ma anche sul mercato?

In tal senso, fanno riflettere le parole pronunciate dal ministro delle Finanze saudita, Mohammed Al-Jadaan, a latere di un incontro al WEF di Davos nel corso di un’intervista con Bloomberg TV: I don’t think we are waving away or ruling out any discussion that will help improve the trade around the world. Qual era la domanda? Se Ryad escludesse la possibilità di trattare il proprio petrolio su base valutaria che non fosse quella del dollaro Usa come benchmark. Di fatto, i prodromi del petro-yuan. In diretta da Davos. Se la Cina, cui il nostro Governo ha furbescamente dichiarato ex ante la propria antipatia, dovesse utilizzare la bomba immobiliare come minaccia, il buco creato dal superbonus quali effetti potrebbe avere sui conti pubblici e su un settore esiziale già a rischio insolvenza? Lo ripeto, buona roulette russa.

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