Sarebbe fin troppo facile fare ironia sui toni apocalittici di certi discorsi, mentre sullo sfondo scorrono le immagini della tempesta polare che sta flagellando da giorni Buffalo e il Wyoming. Stato, quest’ultimo, dove le temperature hanno toccato il record di -57 gradi. Difficile andare da quelle partii a parlare di surriscaldamento globale. Quantomeno, se si ha la pretesa di tornare a casa incolumi.



Ma, appunto, trattasi di facile ironia. C’è invece un lato decisamente più interessante e serio nell’emergenza che sta colpendo parte degli States e ce lo mostra questo grafico: a causa del congelamento delle strutture, la produzione di gas LNG statunitense è crollata di 10 miliardi di piedi cubi da un giorno all’altro.



Stessa sorte toccata a 1,5 milioni di barile di capacità di raffinazione petrolifera giornaliera nella costa del Golfo, dove le strutture di TotalEnergies, Motiva Enterprises e Marathon Petroleum vicino a Houston sono state bloccate dal gelo. Nemmeno a dirlo, prezzi incorporati in aumento sul breve termine. Ma non basta. Questo è il comunicato stampa con cui Freeport, azienda leader nell’esportazione di LNG, già 48 ore prima che la tempesta polare colpisse gli Usa, rimandava per la quarta volta la riapertura in piena operatività del suo hub texano, dopo l’incidente dello scorso giugno. Da metà dicembre alla seconda metà di gennaio 2023.



Insomma, attenzione ai conti che stiamo facendo. E alla guerra sotterranea e parallela che si sta sviluppando nuovamente attorno al gas, poiché tutta incentrata sulla tecnica dell’imboscata. Ottusi come siamo, noi europei siamo certi che l’accordo sul price cap e il conseguente e pavloviano calo delle valutazioni alla Borsa di Amsterdam rappresentino l’ipoteca su un futuro di serena indipendenza energetica dalla Russia. Balle. Non a caso, proprio Mosca ha scelto di rilanciare adesso, di fatto aprendo all’ipotesi di riattivare da subito e al 100% i flussi del proprio gas via Polonia verso l’Europa, la cosiddetta tratta Yamal-Europe. Disperazione da perdita di domanda? Se lo pensate, state cadendo con tutte le scarpe nella trappola russa. La quale, a differenza dell’Ue, il mercato energetico lo conosce molto bene. Non fosse altro perché garantisce le casse dello Stato. Ed è perfettamente al corrente anche di quanto sta accadendo Oltreoceano. In più, Mosca prende decisamente più in considerazione di quanto non stia facendo Bruxelles la minaccia ritorsiva del Qatar rispetto alle proprie forniture di gas verso il Vecchio Continente.

Ora, partiamo da un presupposto: gli stoccaggi che tanto ci fanno riempire la bocca in fatto di resilienza ormai garantita all’inverno, in realtà servono a mantenere operativi gli impianti. Non sono extra-capacity in senso stretto. Solo lato. Tradotto, c’è il fortissimo rischio che, da qui a marzo, l’Europa si faccia trovare clamorosamente con la guardia energetica abbassata. E cosa potrebbe accadere? Un combinato di questo genere. LNG statunitense con il contagocce e a prezzo salatissimo, causa mancanza di offerta sul mercato per gelo e ritardi della Freeport. Mosca isolata politicamente e costretta a operare ritorsioni sul price cap, stante lo sdegnato no – tutto politico e tutto imposto da Washington – alla mediazione sulla riapertura di Yamal-Europe. Qatar che mette in stand-by le forniture, verso Germania e Italia in testa, a causa di un’estensione dell’indagine europea per mazzette e traffico di influenze e la conseguente espulsione di funzionari qatarioti dalle sedi comunitarie. Detto fatto, Doha chiede solidarietà al Consiglio degli Stati del Golfo. Il quale, chiaramente, la garantisce. E comincia un muro contro muro verso l’Ue e il suo atteggiamento di criminalizzazione dei vari Emirati. Dove andrebbe a finire il prezzo de gas, al netto della manipolazione dei futures?

E attenzione, perché pur prezzando un clima che a quel punto sarebbe largamente più mite di quello attuale su gran parte dell’Europa, questo colossale ingorgo di criticità andrebbe potenzialmente a collocarsi nel pieno della recessione ormai data per scontata da tutti gli analisti. E nel pieno di un nuovo, drastico rialzo dei tassi di interesse Bce tra inizio febbraio e il board del 16 marzo. L’Italia e il suo Governo sono consci e preparati a questo non del tutto improbabile worst case scenario? Sicuri che il mondo – inteso come interessi economici, commerciali e finanziari – che non fa capo al Vecchio Continente non stia preparando una Spring surprise che operi da completamento del lavoro di ridimensionamento e potenziale de-industrializzazione esiziale dell’Europa, cominciato la scorsa primavera con la crisi ucraina? Se accadesse, dove andrebbe a finire il tasso di crescita previsto per l’Italia per il 2023? E venendo a mancare drasticamente l’effetto boost del Pil sulla sostenibilità del debito e i conti messi a preventivo nella Finanziaria, quale sarebbe l’immediato epilogo a livello di tagli e necessità di nuove entrate?

Ma tranquilli, vedrete che sono solo preoccupazioni eccessive e mal riposte. Il problema è quando a ragionarci sopra è uno come il sottoscritto e non qualcuno al Mef. O a palazzo Chigi.

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