Si è spenta in fretta l’eco per il vigliacco attentato che in Congo ha spezzato la vita dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci. Molta emozione, funerali solenni. Poi, il silenzio. La cronaca, si sa, è un mostro che divora e fagocita. Gli agenti del Ros inviati sul posto hanno ascoltato le testimonianze e, tornati in patria, hanno confermato come il militare abbia tentato in ogni modo di salvare la vita al nostro diplomatico: entrambi uccisi in un conflitto a fuoco, non apparentemente in un’esecuzione. Ci penseranno gli inquirenti a fare chiarezza, in attesa che l’Onu dica qualcosa attraverso la sua indagine indipendente. So poco di quei Paesi, quindi evito di tramutarmi in africanista dell’ultim’ora. So questo però: volete le auto elettriche, la transizione ecologica, un mondo pieno di foche e pinguini che renda felice Greta e i suoi sodali e che faccia fare i miliardi a Elon Musk, garantendo a quei filantropi che tirano i fili del Nasdaq profitti enormi? Bene, tutto questo ha un prezzo. Nel caso del Congo, coincide con l’esplosione delle valutazioni del cobalto, fondamentale per le batterie delle auto elettriche. 



Nemmeno a dirlo, la Repubblica Democratica del Congo è l’El Dorado di quel materiale così fondamentale per garantirci un pianeta su misura di Licia Colò. E siccome la nostra coscienza non la vogliamo soltanto pulita, ma addirittura candeggiata, ecco che qualcuno ha posto un interrogativo: non sarà che questa corsa sfrenata verso il business del green porterà a uno sfruttamento ancor peggiore nelle miniere del quel Paese, storicamente già poco attento ai diritti dei lavoratori? Ecco quindi nascere l’esigenza per un responsibly-sourced cobalt. Ovvero, la certificazione per componenti che contengano cobalto e che vengano commercializzate nell’Unione europea di condizioni minime di dignità e sicurezza per chi lavora, visto che un terzo dell’intera produzione del Congo fa riferimento ai cosiddetti small-scale miners. Sacrosanto. Peccato che sia pressoché impossibile, a meno che non vogliate in futuro pagare una berlina elettrica come una Jaguar. E non lo dice il sottoscritto, bensì gli advisers ufficiali della Commissione Ue sul tema, la Elsevier Ltd. 



E le risultanze del suo studio, già presentate a Bruxelles, saranno pubblicate nel numero di giugno della sua rivista, Resources Policy. Eccone un estratto: «Il raggiungimento di questi ambiziosi requisiti potrebbe rivelarsi attualmente troppo difficile. Se, come proposto dalla Commissione Ue, la due diligence sulla catena di fornitura del cobalto sarà obbligatoria per le batterie vendute sui mercati dell’Unione europea nel prossimo futuro, la domanda per il cobalto con provenienza responsabile crescerà rapidamente». Già oggi, infatti, molto aziende che operano downstream nel settore sono giustamente riluttanti nell’acquistare cobalto cosiddetto hand-dug, estratto manualmente, poiché questo potrebbe infatti farle incorrere nel rischio di violazioni del codice etico europeo, in primis relativamente al lavoro minorile. 



Glencore, azienda mineraria leader che opera in due delle più grandi miniere di cobalto del mondo, proprio in Congo, ha infatti stipulato un codice in base al quale i propri clienti, ad esempio Tesla, hanno la garanzia che il cobalto utilizzato abbia unicamente fonti sostenibili. Il problema è che non tutti operano così. Ad esempio, la ricerca fa notare come molte aziende cinesi – la cui presenza in Africa è ormai a livello coloniale – vendano cobalto processato in Europa che mixa diverse varianti del materiale, alcune provenienti da fonti minerarie non regolamentate. Per capirci, il Congo produce tre quinti del cobalto del mondo. E un terzo di questo viene estratto da centinaia di migliaia di cosiddetti minatori freelance, ovvero in balia delle condizioni di un mercato che in loco certamente non risponde alle regolamentazioni così stringenti dell’Ue. 

Stando al report, entro il 2030 le economie europee dovranno garantirsi qualcosa come più di 64.000 tonnellate di cobalto eticamente sostenibile oltre a quelle offerte dalla catena di fornitura esistente, un volume totale di metallo che – al prezzo attuale – rappresenta un controvalore di circa 3,2 miliardi di dollari. Il tutto in nome della transizione verde verso l’auto elettrica. Non a caso, le compagnie minerarie stanno già cercando nuove riserve oltre a quelle africane, dall’Australia fino a quelle nascoste nei fondali marini. In nome dell’ambiente. 

C’è però un problema, al netto della bontà etica e morale del progetto, la cui importanza sistemica potrebbe per molti valere il prezzo che già si sta pagando. E che va oltre anche al paradossale controsenso di chiedere condizioni migliori di lavoro per chi estrae il cobalto e contemporaneamente garantire la creazione di quella che, a oggi, è un’enorme bolla di speculazione finanziaria su – passatemi il termine – espansione di multipli ambientali. Molto oltre. Perché se garantire a Wall Street e soci il nuovo giochino con cui arricchirsi, inventandosi Etf e fondi etici che di etico hanno solo il nome, di per sé sarebbe già gravissimo, ancora peggiore appare il quadro alla luce delle risultanze di uno studio della Research Affiliates di Rob Arnott appena pubblicato e intitolato in modo da non permettere voli pindarici interpretativi: The big market delusion. Tradotto, «al netto di uno stratosferica esplosione del suo market cap nei 12 mesi conclusisi lo scorso 31 gennaio, quello dei veicoli elettrici rappresenta in pieno l’esempio di grande delusione di mercato… Di fatto, appare poco profittevole nell’arco temporale la prospettiva di un nuovo business che veda tutti i soggetti in causa crescere all’unisono, nonostante siano in competizione fra loro». 

Prendiamo Tesla, ad esempio. «All’attuale capitalizzazione di mercato, Tesla pesa per circa il 75% del market value totale del comparto auto elettrica e per il 35% dell’intera industria automobilistica. Un market cap così immenso, quasi in pari con quello dell’intero comparto automotive tradizionale di circa 1.100 miliardi di dollari, ha senso soltanto se l’aspettativa è quella che veda Tesla destinata a dominare l’intero settore e non soltanto quello EV». Ipotesi quantomeno fantascientifica, anche per uno con dimestichezza con Marte come Elon Musk. 

Conclusione: «Inoltre, rimane decisamente poco chiaro come il semplice switch nei mezzi di propulsione possa rendere l’intero mercato delle berline EV più profittevole. Una prospettiva quest’ultima che, di fatto, il mercato sta invece attualmente prezzando come assodata e certa. Sospettiamo che quando la competizione nel comparto si surriscalderà ulteriormente, molto aziende falliranno, esattamente come accaduto in altri ambiti, dalle linee aeree al tech e anche il valore totale di quell’industria recederà a livelli decisamente più ragionevoli». Nulla, quindi, che giustifichi la follia in atto nelle valutazioni nemmeno del mercato, oltre ai risvolti geopolitici. E questi grafici contenuti nel report lo certificano plasticamente. 

Sicuri che l’unidirezionalità di positivismo che contraddistingue tutto ciò che viene spacciato per green sia non solo giustificata ma addirittura moralmente reale? E qui non parliamo di fondi ESG che trattano titoli che di verde hanno visto solo il colore della cravatta dell’amministratore delegato, qui si parla di impostazione delle politiche economiche e strategiche di interi governi e Paesi. Parliamo del distruttore USS John Finn che dall’insediamento di Joe Biden ha transitato già per tre volte nello stretto fra la Cina e Taiwan, in aperta provocazione verso Pechino. Casualmente, l’Unione europea sembra aver rialzato la testa in queste ore contro la Cina attraverso il proxy del nuovo vincolo di mandato elettorale per Hong Kong. Prima firma in fretta e furia l’accordo commerciale, proprio sul filo di lana della scadenza del semestre di presidenza Merkel (Cina primo partner commerciale della Germania) e poi gioca a fare il fedele cane da guardia degli interessi Usa: questa è l’Europa che si preoccupa della provenienza certificata del cobalto per le batterie verdi. 

Pensate che nell’accordo commerciale con Pechino non sia contemplata parte di quella componentistica di provenienza mista riguardo cui si mette in guardia nel report della Elsevier Ltd? Ma si sa, il grande problema del comparto auto oggi è un altro: la scarsità di semiconduttori, non di cobalto. E dove si trova il più grande produttore di questi microchip così fondamentali? A Taiwan, la TMSC. Non a caso, è dell’altro giorno la notizia che proprio l’esplosione della domanda di semiconduttori ha portato nel mese di febbraio a un’incremento del 9,7% delle esportazioni di Taiwan su base annua. Nel solo mese scorso, l’export di Taipei è arrivato a 27,8 miliardi di dollari di controvalore, segnando l’ottavo mese positivo in crescita. Questo, nonostante il mondo sia ancora nel pieno della crisi pandemica. Davvero pensate che a Usa e Ue interessino le libertà civili dei cittadini di Taiwan? 

Attenzione, il 18 e 19 marzo si terrà il vertice tra Stati Uniti e Cina ad Anchorage, in Alaska. Una due giorni a cui parteciperanno il segretario di Stato americano, Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan da una parte e il capo della Commissione Affari Esteri del Partito Comunista Cinese, Yang Jiechi (di fatto, l’inviato speciale del presidente Xi Jinping) e il ministro degli Esteri, Wang Yi, dall’altra. Di fatto, la spartizione del mondo, la nuova Yalta ex ante all’ipotesi di scontro frontale. L’Europa? Certifica il cobalto, tanto per non far piangere Greta. E Licia Colò. 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI