Volete capire, una volta per tutte e molto intuitivamente, perché l’esempio di monetarismo espansivo giapponese rappresenta lo spoiler migliore per capire la rotta da kamikaze che i governi occidentali stanno intraprendendo, proprio in ossequio alla loro fiducia cieca e giocoforza disperata nell’onnipotenza delle Banche centrali? La cronaca di questi giorni ci viene incontro in maniera quasi a orologeria. Prima, però, meglio fare un rapidissimo excursus sull’oggetto di questione, ovvero i Clo o Collateralized Debt Obligations. Di fatto, obbligazioni garantite da collaterale nella forma di crediti originati da prestiti. In sé, nulla di particolarmente esotico nel panorama degli strumenti di investimento strutturati.



Dopo interi trimestri con il vento in poppa, nel mese di marzo il mercato dei leveraged loans – che costituiscono l’ossatura di quegli assets – ha patito un netto calo delle valutazioni, un tonfo senza precedenti da almeno un decennio che ha visto sempre più soggetti operanti nel settore impegnati senza fortuna (e con sempre maggiore agitazione) nel trovare acquirenti per quei prodotti, così remunerativi ma anche sempre più simili a bombe a mano con la spoletta allentata. Il motivo? L’aumento esponenziale e rapidissimo dei default di soggetti di mercato, amplificato da uno strano attivismo nei downgrades da parte delle agenzie di rating e dagli effetti devastanti dei lockdown a livello globale. Poi, la Fed entrò in campo all-in e anche le valutazioni di quel comparto rifiatarono, quasi a voler tranquillizzare tutti sulla possibilità di poter continuare a far girare la giostra dei soldi facili e dell’azzardo formalmente controllato.



Ma proprio in quel momento, un paio di grandi fondi – uno statunitense e uno francese – liquidarono due interi pools di prestiti acquistati dalle banche, prima ancora di tramutarli in Clo e venderli alla clientela. Perché? Forse la certezza che la situazione, dopo il primo rimbalzo post-minimi di marzo, non potrà che peggiorare, magari a causa del continuo susseguirsi di downgrades del rating che sta colpendo a centinaia le componenti sottostanti di quei prodotti finanziari? In parte, sì. Ma non solo. La questione è sempre la solita: il Re è nudo e il redde rationem con la denuncia in tal senso dell’innocente bambino rappresentato dal mercato appare ormai dietro l’angolo.



A far paura, infatti, è la pressione crescente soprattutto su portfolio di buona qualità creditizia. Un qualcosa che ha molto a che vedere con la natura stessa di gran parte di quei prodotti finanziari, quella che a Wall Street viene definita la big alchemy, la grande alchimia. Ovvero, trasformare un prodotto sostanzialmente composto al 90% da prestiti junk in un portfolio obbligazionario investment grade. Come? Nascondendo i rischi. I quali restano bassi in periodo di calma sui mercati, ma quando un elemento destabilizzante e inatteso come la crisi da Covid-19 arriva a operare da accelerante o reagente del danno, possono moltiplicarsi esponenzialmente e a macchia d’olio. Soprattutto, alla velocità della luce. Insomma, quella di trovarsi con in mano un Clo che il venerdì valeva 70 centesimi sul dollaro e che il mercoledì dopo vale 35 non è poi così peregrina come ipotesi. Almeno in tempi come questi.

La ragione? Ontologica, appunto. Per attirare clientela serve infatti un duplice amo: un buon rendimento e, soprattutto, garanzie di relativa sicurezza. Il primo è semplice, maneggiando ampi strati di securities con valutazione di rating bassa. Una logica da normale premio di rischio. Più difficile è invece offrire il principio precauzionale del rischio calcolato. Ecco quindi entrare in scena la logica del fruttivendolo disonesto. Ovvero, esattamente come certi esercenti che mettono le fragole più belle e rosse sopra il cestino – nascondendo sotto quelle un po’ passate e ancora più in basso, sul fondo coperto dalla plastica, quelle del tutto marce -, così chi impacchetta e vende Clo, priorizza nel processo di securization le tranches di prestiti con rating maggiore, ponendole più in alto e in evidenza e poi offrendo una cromia a scalare a livello di sicurezza e conseguente maggiore return. Insomma, prima la tranches AAA, poi AA e poi a scendere fino al livello più basso del junk.

Qual è il problema? Che in tempi di crisi strutturale come quelli attuali, il mercato non si fida più di ciò che vede, ma va a controllare la “frutta” che compra. Tutta. Ovvero, scava sotto il primo strato e va a vedere quanto di marcio sta acquistando insieme ai frutti di prima scelta messi in bella evidenza. I quali, se osservati bene attraverso quella controluce critica e realista, appaiono essi stessi per quello che effettivamente sono: frutta di serra, bellissima allo sguardo, ma senza sapore.

Ed eccoci arrivare al Giappone, nella fattispecie al caso della Norinchukin Bank, meglio conosciuta in patria con il diminutivo quasi familistico e affettivo di Nochu. Di cosa si tratta? È la banca cooperativa che storicamente raccoglie e gestisce i risparmi di pescatori e agricoltori (oltre che dei pensionati di quei comparti) nipponici, quanto di più legato all’economia reale si possa pensare. Qual è il problema? Che alla Nochu si sono stancati di rendimenti miseri per gli investimenti finanziati dai risparmi dei loro laboriosi clienti e hanno deciso di lanciarsi sul mercato dei prodotti strutturati. Proprio come i Clo, in grado di garantirti profitti interessanti, ancorché a fronte di un margine di rischio maggiore. Il quale, ovviamente, viene ben occultato agli occhi degli investitori, gente abituata ad alzarsi alle 4 del mattino e andare a lavorare duro.

Già nel 2018 la banca subì perdite pesanti durante un rovescio di mercato e la scoperta di investimenti in comparti particolarmente speculativi spinse le autorità finanziarie giapponesi a un giro di vite nella regolamentazione, al fine di non ritrovarsi in casa una Lehman Brothers in sedicesimi. Oltre a frotte di pescatori e contadini infuriati per i soldi persi.

Per un breve periodo, la tregua del buonsenso ha retto. Poi, però, il clima di festa è tornato a menare le danze. Globalmente. Questo grafico mostra plasticamente l’incremento costante delle posizioni su Clo di Nochu fino al giugno dello scorso anno.

Ed eccoci al presente, ai tempi del lockdown globale e della crisi generalizzata. La scorsa settimana, il management di Nochu ha dovuto comunicare a pescatori, contadini e pensionati suoi clienti di aver perso la cifra record di 400 miliardi di yen (3,7 miliardi di dollari) a causa del crollo del mercato dei leveraged loans. Un tonfo senza precedenti, tanto che Kazuto Oku, Ceo della Banca, ha ufficialmente comunicato come d’ora in avanti gli investimenti in strumenti di rischio verranno limitati dal nuovo statuto. Fine dei giochi. Ma, per molti clienti, anche addio ai risparmi di una vita. O, comunque, a una parte di essi.

L’aggravante? Ciò di cui parlavamo poco fa: per stessa ammissione del management, le perdite in cui è incorsa Nochu sono derivate anche da esposizione su Clo, questo nonostante si fosse investito soltanto nella tranches più sicure, quelle con rating AAA. La logica del fruttivendolo disonesto, appunto. La stessa che può abbindolare clienti senza educazione finanziaria e che può stuzzicare l’azzardo di consulenti e responsabili di capitale poco accorti o peggio senza giudizio. Ma che non può fregare per sempre il mercato.

Direte voi, cosa c’entra il Governo giapponese e la sua politica monetaria con le scelte sbagliate di un soggetto privato? Guadate questo grafico, pubblicato da Deutsche Bank nel weekend: sapete cosa ci dice? Che la Bank of Japan, dopo aver monopolizzato a tal punto il mercato obbligazionario sovrano da aver ridotto praticamente a zero il volume di trading reale e messo sotto controllo sovietico l’intera curva dei rendimenti, oggi detiene qualcosa come oltre l’80% degli Etf azionari domestici: insomma, il mercato in Giappone è rappresentato dallo Stato, sia sul reddito fisso che nelle equities!

Capite da soli che, se il soggetto che dovrebbe controllare il tuo operato e limitare la tua propensione all’azzardo attraverso le regolamentazioni di settore, si comporta in questo modo, è difficile che tu possa resistere a lungo alla tentazione di operare nello stesso modo. Ovvero, senza un briciolo di raziocinio rispetto alle conseguenze potenziali delle tue azioni. E per quanto io posso essere eccessivamente fedele alla lezione di Von Hayek e Von Mises, qui siamo decisamente oltre anche al concetto più spinto di politica keynesiana: qui siamo alla pianificazione e al controllo statale assoluto di ciò che dovrebbe essere libero per antonomasia. Ovvero, il mercato.

Riuscite, alla luce di questo, a non intravedere un nesso fra causale fra scelte del vertice e atteggiamento poco prudenziale dei soggetti creditizi a valle? Certo, oggi Nochu promette solennemente che non lo farà mai più e che, anzi, in tal senso provvederà alla ratifica di una stretta statutaria sul tipo di investimenti permessi, ma per quanto durerà questa austerity del buonsenso? Fino al prossimo rally globale, magari innescato in estate dalla scoperta a orologeria del vaccino contro il Covid-19? E non pensiate che la questione riguardi solo il Giappone, il quale è sì avanguardia e apripista globale ma vede nella Fed un competitor di tutto rispetto. Guardate questi tre grafici finali, dai quali appare intuitivo cogliere la natura manipolata anche di Wall Street e della sua dinamiche.

Se il primo ci mostra come i flussi in uscita dal mercato azionario Usa siano proseguiti con forza nell’ultimo periodo, dall’altro si nota una netta inversione all’insù del trend dei corsi: quindi, qualcuno ha comprato, sostituendosi al flusso degli outflows. Solo hedge funds e retail? No, non solo. Il secondo grafico svela perfettamente l’arcano e lo contestualizza nel +30% registrato dal Nasdaq dai minimi di marzo: a grande richiesta sono tornati in grande stile i buybacks, con il comparto tech a farla ancora da padrone. Insomma, nella certezza che la Federal Reserve saprà sdebitarsi, il cosiddetto libero mercato opera onanisticamente comprandosi da solo, magari finanziando l’operazione con mega-emissioni di debito garantite dalla stessa Fed, la quale non solo tiene i tassi al minimo e gioca al gatto col topo della discesa in negativo, ma ha ampliato talmente a dismisura il pool di collaterale accettato per operazioni di rifinanziamento da rendere eligibile anche una raccolta di buoni sconto del supermarket. E il terzo grafico ci mostra la realtà per com’è, una volta grattata via la patina della propaganda: a fronte di titoli Faamg (Facebook, Amazon, Apple, Microsoft e Google) che da inizio anno possono vantare un +15% sullo Standard&Poor’s 500, le rimanenti 495 aziende quotate sul medesimo indice hanno segnato un -8% nello stesso arco temporale.

Insomma, una cosa è prendere la valutazione media dei titoli quotati, un’altra il cosiddetto cap-weighted index, ovvero l’indice basato sulla ponderazione della capitalizzazione di mercato. E quando solo 5 titoli ti reggono l’intera baracca per quello che ormai rappresenta oltre un 20% del market cap totale, basta poco perché quel sostegno perda di vigore. Tipo una crociata della Casa Bianca contro i social network, un altro scandalo stile Cambridge Analytica, una ritorsione (seria, questa volta) cinese sulle aziende estere che producono nel regno del Dragone, un improvviso interessamento del Dipartimento della Giustizia e del Treasury sulla tua accountability fiscale. O, peggio ancora, un aggravarsi tale della crisi da non permetterti più di emettere debito col badile e finanziare così buybacks strutturali. A quel punto, la palla di neve diventa valanga. In tempo zero.

Se le Banche centrali operano così e i governi che le controllano le spingono a farlo sempre di più, pena stalkeraggio quotidiano via Twitter, come pensate che un soggetto di mercato possa operare attenendosi alle regole del buonsenso? Direte voi, questione di etica. Certo, lo raccontate voi però alla clientela rosa dall’avidità e del timore di perdere “il mercato rialzista del secolo” che è meglio operare sul plain vanilla, senza rischi, piuttosto che prefigurargli l’acquisto di ville in Florida per Natale, come fa il vostro concorrente diretto meno eticamente responsabile? Se si chiama sistema, è perché tutti ne siamo parte come piccoli ingranaggi del meccanismo. Quindi, tutti – chi più, chi meno – colpevoli. Nessun assolto.