Tutti i quotidiani italiani ieri riportavano il Financial Times. E non per il titolo di prima pagina in cui gli Usa ordinavano di fatto alla Germania di bloccare Nord Stream 2, in caso di attacco russo all’Ucraina. Bensì per quello che è stato inteso come un messaggio nemmeno troppo in codice o velato dei mercati alla politica italiana: Mario Draghi resti Primo ministro, poiché un suo trasloco al Quirinale destabilizzerebbe il quadro delle riforme intraprese. E l’intera società del Paese.



Non è la prima volta che il quotidiano della City invia avvertimenti a mezzo stampa. E non sarà l’ultima. L’Economist andò anche oltre, camminando con gli stivali infangati dalla supposta superiorità morale sulle scelte di qualche milione di italiani e decidendo che Silvio Berlusconi era a prescindere unfit a guidare il Paese. Nulla che stupisca, insomma. E nulla che preoccupi. Si è voluta scatenare una tempesta in un bicchiere d’acqua, semplicemente perché la polemica fa comodo a livello interno tutto italiano. E la riprova è semplice: attualmente, l’unico timore di mercato per il nostro Paese si chiama Bce. Tutto il resto, è accessorio.



Stupisce quindi come, nel giorno dell’insediamento al Bundestag del governo di Olaf Scholz, l’attenzione degli avidi lettori italici del Financial Times non sia stata concentrata su un altro articolo, dal titolo decisamente poco incoraggiante: ECB executive Schnabel warns that QE is inflating asset prices. Già, Isabel Schnabel, la più colomba delle colombe all’interno del Consiglio direttivo della Bce, ha cambiato idea. E, udite udite, si è accorta proprio ora che il Qe inteso come permanente sta portando alla creazione di bolle sui prezzi dei titoli azionari. Insomma, la scoperta dell’acqua calda. Però, attenzione al timing. Proprio alla vigilia del board Bce del 15-16 dicembre che negli annunci e nelle intenzioni di Christine Lagarde doveva servire come palcoscenico all’annuncio di modi e tempi del Pepp permanente e post-pandemico. E che, invece, l’impennata dell’inflazione pare destinata a tramutare nell’ennesima riunione transitoria, nell’ennesimo calcione al barattolo. Con un rischio in più, però. Il nostro spread sta già inviando segnali di decisa tensione, da giorni. E, questione tutt’altro che secondaria a livello psicologico, dal 22 dicembre al 2 gennaio la stamperia della Bce andrà in vacanza, sospendendo tutti i programmi di acquisto. Di fatto, dieci giorni di stress test rispetto a come sarebbe il mondo senza il prestatore di ultima istanza. Roba da revisione del piano ferie sia al Tesoro che a Bankitalia.



E, tanto per non farci mancare nulla, il tutto alla luce di un particolare decisamente serio: la stessa Isabel Schnabel, a detta della quale «il programma di acquisto sta vedendo aumentare i suoi effetti collaterali negativi e in contemporanea svanire quelli benefici», a oggi pare la candidata numero uno alla successione a Jens Weidmann come Presidente della Bundesbank. E quando una candidata a quel ruolo ammette e sottolinea come «il programma di acquisto di assets ha rappresentato un importante strumento durante il periodo di tensione sui mercati e la recessione, ma oggi la sua ratio fra costi e benefici sta deteriorando, stante il miglioramento del quadro macro dell’economia», c’è poco da stare allegri, se sei un Paese stra-indebitato come l’Italia. Perché anche la strada della revisione in senso meno rigorista del Patto di stabilità appare meno scontata. O, quantomeno, bilanciata in negativo da una Bce che non sostiene più i costi di finanziamento e servizio del debito come fatto finora, comprimendo artificialmente lo spread.

Il problema? Anche qui, strettamente connesso a un calcolo di costi e benefici. Se anche il Governo Scholz accettasse una revisione del Patto di stabilità improntata a maggiore tolleranza, il processo di riforma sarebbe comunque lungo e laborioso. I risultati nefasti di una Bce non più prestatore di ultima istanza, li si pagherebbe subito. Pronta cassa. Immediati. Anzi, paradossalmente persino in anticipo, perché una Christine Lagarde che giovedì prossimo apparisse più preoccupata del previsto sul fronte dell’inflazione innescherebbe immediatamente la prezzatura preventiva del mercato di un programma di acquisto che dopo il 31 marzo potrebbe proseguire soltanto su livelli minimi. A quel punto non servirebbe nemmeno lo spauracchio dell’aumento dei tassi, il nostro spread esploderebbe comunque e immediatamente. E, particolare non da poco, lo farebbe alla vigilia proprio dello stop natalizio del Pepp, quindi con quasi due settimane di traversata del filo senza rete per il nostro differenziale.

Chiaramente, c’è da attendersi che nell’ultima settimana di operatività la stessa Bce garantirà mandato ben oltre la capital key a Bankitalia, al fine di creare un cuscinetto preventivo di deterrenza. Quindi, se fra una decina di giorni saremo più in area 100 punti base che 130 nessuno gridi al miracolo economico o di fiducia. Sarà solo frutto di acquisti extra e contestuale sospensione delle vendite da parte di chi soppesava come prevalenti in negativo i dubbi sorti all’Eurotower. Ma le tensioni già in atto sul nostro Btp decennale parlano chiaro. E le parole di Isabel Schnabel, riportate con grande enfasi dal Financial Times, ne rappresentano la giustificazione più diretta e palese. Almeno quanto questo grafico, dal quale si nota quale sia stato il benvenuto del prezzo dell’elettricità in Germania al primo giorno di insediamento ufficiale del governo Scholz: oltre 192 euro per magawatt/ora, livello destinato a regalare ai tedeschi lo sfondamento dello quota psicologica dei 200 euro entro Natale.

Anche le colombe, quando il rischio sale e il Governo che ha atteso il suo momento per 20 anni ha appena messo piede al potere, tirano fuori le unghie. Si chiama sopravvivenza. O legge della giungla. Una cosa è certa: chi pensa che l’addio di Angela Merkel abbia cancellato ogni problema di rigore e ripone fiducia cieca nell’approccio espansivo ed europeista dell’esecutivo guidato dall’ex ministro delle Finanze socialdemocratico rischia di prendere una cantonata colossale. E decisamente pericolosa. Perché le parole di Isabel Schnabel appaiono fin da ora un monito molto, troppo chiaro: a quel punto, a palazzo Chigi potrebbe sedere anche Superman. Perché a fronte di una promessa di clemenza in sede di revisione del Patto di stabilità, o partirà subito un processo concordato e draconiano di riduzione del nostro stock di debito, il cui primo atto sarà una sanguinosa manovra correttiva già a primavera, o il braccio di ferro che si scatenerà in sede Ue porterà come conseguenza finale una ristrutturazione dello stesso. Più o meno diretta.

Il grande beneficiario di uno scenario simile? La stessa nazione che sta conoscendo un ritorno ai livelli di crescita pre-pandemica da record, sia in industria che in manifattura che nei servizi. La stessa che andrà al voto in primavera per scegliere il Presidente. La stessa che ha appena firmato un Patto al Quirinale. La stessa che millanta amicizia, ma si tiene segretamente ben stretto il suo asse renano. Anzi, ancor di più. Perché ora che l’ingombrante Angela Merkel è andata in pensione, la forza primaria dell’alleanza avrà domicilio a Parigi e non a Berlino.

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