Il premier Giuseppe Conte è in Cina. A fare cosa? Missione ufficiale. Ma non per cercare di piazzare qualche cassetta di arance in più, bensì in qualità di unico leader del G7 presente al Belt and Road Forum. Timing peggiore non lo si poteva chiedere per questo viaggio. O, forse, diretta conseguenza di una scelta a dir poco azzardata del governo italiano che ora sta per conoscere i costi che quella firma apposta sul memorandum con Pechino porterà con sé, al netto di un ritorno di interesse praticamente a zero. Dividendo politico ed economico della mossa, non pervenuto.



Conseguenze? In via di calcolo e preparazione. Cosa io pensi di Steve Bannon e della sua compagnia cantante di sovranisti vi è noto, però è altresì noto il peso che quel signore – dal profilo tutt’altro che cristallino nei rapporti reali con certi circoli di potere – ha avuto nelle inclinazioni di politica estera del governo gialloverde. Bene, il 25 aprile, Steve Bannon ha concesso un’intervista alla CNBC e lo ha fatto non da solo, bensì in coppia con qualcuno che per un populista come lui dovrebbe rappresentare il corrispettivo della kriptonite per Superman. Ovvero, Kyle Bass, gestore di hedge fund, vera e propria icona di Wall Street e nemico giurato della Cina. Uno che al mattino appena sveglio, prima di baciare la moglie e augurarle buon giorno, ammonisce il mondo sull’ormai prossimo hard landing dell’economia del Dragone.



I due sembravano due liceali al primo appuntamento: affiatamento perfetto, sguardi di approvazione quasi languidi. Ed ecco come Steve Bannon, il guru di Salvini e della Meloni, che lo volle all’ultima edizione di “Atreju” come ospite d’onore, ha definito il progetto di Nuova Via della Seta, quello che in queste ore vede Giuseppe Conte impegnato a Pechino: “la più significativa sfida esistenziale che gli Stati Uniti abbiano mai affrontato”. Sfida esistenziale. Tradotto, noi o loro. Mors tua, vita mea.

Mettetela come volete, ma il messaggio è chiaro. E profferito da Bannon, affiancato per l’occasione da un annuente gestore di fondo speculativo, deve far pensare. E anche un po’ tremare. E vi assicuro che non sto esagerando.



Volete un altro esempio concreto riguardo la delicatezza mortale del momento che stiamo vivendo, a livello di interessi ed equilibri internazionali? Bene, sempre il 25 aprile, Germania e Polonia hanno sospeso l’importazione di greggio russo attraverso la pipeline Druzhba, la quale parte dalla Russia e attraversando la Bielorussia arriva nell’Europa centrale. Un’interruzione improvvisa che va a impattare su circa 700mila barili di fornitura al giorno e che, a detta di Chris Midgley, capo del centro ricerche alla S&P Global Platts, “potrebbe comportare interruzioni alle forniture, ridurre l’attività delle raffinerie europee interessate, comportare un aumento dei prezzi e dei margini per chi raffina, ma non impatterà né la fornitura, né la produzione a livello globale in maniera significativa”. Insomma, un qualcosa di apparentemente mirato. Sicuramente casuale, però. Ma altresì molto strano. Quasi chirurgico. Perché il petrolio russo non può essere utilizzato a causa di una contaminazione relativa ai livelli di cloro contenuto nel greggio: “La prima cosa da notare riguardo all’incidente che ha coinvolto il petrolio russo contaminato è che si tratta di un’evenienza rarissima. E’ la prima volta in vita mia che vedo una cosa del genere”, ha dichiarato in una risposta via mail alla CNBC Stephen Brennock, analista sul petrolio alla PVM Oil Associates.

Tu guarda che caso, proprio il giorno seguente all’annuncio da parte del Dipartimento di Stato della fine delle esenzioni relative all’export di petrolio iraniano verso 8 Paesi, fra cui Italia (fresca alleata cinese, quasi una quinta colonna commerciale e sulle infrastrutture sensibili) e Turchia (Paese Nato che, però, compra batterie anti-missile S-400 dalla Russia). E Cina, la quale ha già detto che non rispetterà l’embargo statunitense.

Le autorità russe, preso atto dell’accaduto, hanno immediatamente confermato che risolveranno la questione nell’arco di giorni, forse già entro l’inizio della prossima settimana, ma in questo caso non è il danno reale, oggettivo, pratico e concreto ciò che conta. E’ il segnale che arriva attraverso queste continue coincidenze, fra cui il particolare della contaminazione da cloro, sostanza che ultimamente ha fatto parlare di sé più per le false flag ad orologeria in Siria che per la sanificazione dell’acqua delle piscine.

E poi, guarda un po’: Vladimir Putin umilia Donald Trump, incontrando a Vladivostok il leader nordcoreano, Kim Jong-un, e rendendo palese al mondo la sua superiore capacità diplomatica e lo stesso giorno, sempre il 25 aprile, un caso più unico che raro nella storia dell’industria petrolifera mondiale va a colpire proprio la pipeline che unisce la Russia all’Europa centrale. Quasi un ammonimento, un proxy di sciagura per il vero bersaglio grosso: ovvero, Nord Stream 2.

Un bel messaggio a Germania, Repubblica Ceca e Polonia. Quest’ultima, la stessa nazione che, in nome di un sentimento anti-russo viscerale e storico, si è già detta pronta a dare il via libera alla costruzione di una base permanente per l’esercito Usa sul proprio territorio. Ovviamente, tutte casualità assolute. Senza alcun dolo, né alcun nesso fra loro. E’ un meraviglioso mondo di coincidenze fortuite.

Ma noi, per quattro cassette di arance che venderemo al secondo produttore al mondo di quell’agrume (la Cina), firmiamo a cuor leggero un memorandum con Pechino e vediamo il nostro primo ministro in platea, unico leader del G7, ad applaudire il nuovo padrone del vapore. Speriamo che ci comprino BTp, forse? Perché, al netto dello spread sempre in agguato e di un Mario Draghi ormai a fine corsa, voi vi sentireste al sicuro con il nostro debito in mano cinese, il cui governo a livello economico utilizza il ricatto della liquidità come unico criterio di relazione? Non vi basta ancora il quadro nella sua drammaticità, vi occorre altro per sentirvi quantomeno inquietati dalla leggerezza con cui il nostro governo firma e benedice alleanze, quasi fossimo un playboy in preda ad attrazione compulsiva verso ogni gonnella che gli svolazza davanti?

Pronti, tanto per benedirvi il weekend di riflessione con un altro fronte che ci riguarda in prima persona come nazione. L’offensiva del generale Haftar verso Tripoli, infatti, rappresenta l’operazione militare di più ampio raggio e più costosa dalla deposizione di Muhammar Gheddafi nel 2011. E come è stata finanziata? Ce lo dice una bella inchiesta della Reuters: attraverso emissioni di bond non ufficiali, contante stampato in Russia e finanziamenti da parte di banche libiche sotto il controllo del generale, quindi nella parte est del Paese. In totale, circa 35 miliardi di dinari libici di investimento bellico, qualcosa come 25,2 miliardi di dollari. E sapete quando potrebbe concludersi, ingloriosamente, l’assalto del generale verso il controllo totale del Paese e, soprattutto, delle sue fonti petrolifere? Subito, di fatto, perché la Banca centrale libica che risponde al governo di al-Sarraj ha il potere di bloccare i conti, interni ed esteri, e far evaporare nell’arco di giorni ogni forma di finanziamento della campagna. E, oltretutto, anche in base a un principio decisamente legale, visto che quelle stesse banche della zona est del Paese che stanno finanziando l’assalto di Haftar, operano con una spada di Damocle che incombe sulle loro teste.

Negli ultimi mesi, infatti, la quasi totalità di loro ha fallito la richiesta obbligatoria di raggiungimento dei requisiti di capitale minimo, quindi a fronte di prestiti allegri e ingiustificati, la Banca centrale può congelare gli asset. Un bel commissariamento e buonanotte ai suonatori.

Insomma, guerra con altri mezzi: non servono i missili e i tank, quando hai la finanza. Perché il governo di Tripoli non agisce in tal senso? Di più, perché non strepita a livello internazionale, magari minacciando di scandagliare i conti di quelle banche con una bella due diligence e di rendere noti tutti i conti e i depositi sospetti? Parecchi governi occidentali, quello dei nostri dirimpettai francesi in testa, potrebbero non gradire e avere molto da perdere al riguardo. E, magari, anche aziende petrolifere e loro prestanome.

C’è poi la vecchia questione dell’oro libico, sparito dopo la caduta di Gheddafi, così come quella del presunto tesoro personale del vecchio rais. Insomma, la Banca centrale libica potrebbe dimostrarsi arma più efficace di mille batterie anti-missile. Eppure, tutto tace da qualche giorno. L’offensiva pare in stallo. Quasi fosse stato tutto un blitz a uso e consumo della destabilizzazione, più che una reale offensiva per la resa dei conti finale nei nuovi equilibri libici.

Anche l’Isis, subito chiamato in causa durante i giorni dei combattimenti più duri, pare rientrato nei ranghi. In compenso, ha fatto la sua comparsa in Sri Lanka, in un attentato che definire farsesco nei modi e nei tempi è dire poco, ulteriore oltraggio a quelle vite spezzate per interessi altri.

Interpellato dalla Reuters per la sua inchiesta, un diplomatico occidentale sotto anonimato ha così spiegato lo stallo attuale: “Lo scorso novembre, la Camera alleata con Haftar gli ha garantito il passaggio di una legge che, sul modello egiziano, crea un’autorità di investimento militare che garantisce de facto alla Lna il controllo di parte dell’economia civile, ad esempio l’industria dei mezzi di trasporto. Questo garantisce ad Haftar una fonte di entrate che a sua volte mantiene in vita il welfare nell’area del Paese sotto il suo controllo, strumento di consenso enorme fra la popolazione. Ma senza le banche che gestiscono i rapporti con i fornitori esteri e garantiscono l’espansione del business, tutto è inutile. Insomma, se le banche falliscono, lo stato sociale che garantisce ad Haftar la fedeltà della popolazione finirebbe sotto enorme pressione”.

Perché Tripoli non opera in tal senso? Perché si è preferito attendere, combattere per le strade, arrivare allo stallo, piuttosto che chiudere la partita quasi senza aver bisogno di sparare un colpo? Forse perché il gioco è più grande e complesso di quello che appare visto dal di fuori. Attenti a cosa stiamo combinando dalle parti di Pechino, le parole di Bannon e lo scenario libico sono altrettante conferme di come a certe scacchiere possano avvicinarsi solo giocatori professionisti.