Del simposio di Jackson Hole è rimasto poco. L’essenziale. Ovvero, l’annuncio di una FED che è pronta a tagliare i tassi di interesse. Ma l’euforia è apparentemente durata poco. E rispetto ad altre volte, si è mostrata fin da subito decisamente più contenuta e guardinga. Quasi ci si attendesse un’altra sorpresa. Ora date un’occhiata a questa immagine:
la quale ci mostra lo screenshot di una notizia del 18 settembre del 2007. Ci parla di una reazione ben differente. Ma a un medesimo impulso. Quel giorno, i mercati brindarono al taglio di 50 punti base da parte della Federal Reserve nell’arco di una settimana. Due sforbiciate di un quarto di punto l’una. La seconda con il crisma percettivo dell’emergenza e della rassicurante prontezza nell’affrontarla. Casualità vuole che il prossimo FOMC si terrà il 17-18 settembre. Quindi, l’eventuale annuncio tanto atteso avverrà lo stesso giorno di 17 anni fa.
E cosa accadde dopo? Nove mesi di rally. Ma soprattutto, nove mesi di oblio. Durante il quale l’azzardo morale proseguì. Anzi, aumentò. Perché tutti sapevano che quella mossa era il via libera a un last hurrah prima del tonfo. E che tonfo. Ricordate il 2008? Lehman Brothers. I subprime. La grande crisi finanziaria. Il nuovo 1929. Ma prima, nessuno si accorse di nulla. Certo, chi operava sui mercati a luglio del 2008 percepì l’arrivo dell’iceberg. Perché l’interbancario cominciò a congelarsi sul rischio di controparte, fino a veder esplodere i tassi a cui le banche si prestavamo soldi a un giorno. Sfiducia totale. Ma Mr. Smith capì che qualcosa di epocale gli stava crollando addosso solo il 15 settembre, quando brokers e traders di Lehman Brothers uscirono dal posto di lavoro con le scatole di cartone di mano. E Wall Street si inabissò.
Ora date un’occhiata a questo grafico,
il quale ci mostra proprio le tappe di quel disastro. Prima dei due tagli da 25 punti base dal settembre 2007, c’erano stati due eventi non da poco. Ma totalmente ignorati dal grande pubblico. E anche da molti media. La bancarotta di Bear Stearns e lo stop alle redemptions da parte di due fondi legati a BNP Paribas. Nessuno ci fece caso. Nessuno diede peso. Signori, noi abbiamo già vissuto ben di peggio nella nostra versione reloaded. Nonostante tutti abbiano fatto fine di nulla, è fallita Credit Suisse. Quasi dalla sera alla mattina, tanto che il legislatore svizzero ha benedetto il salvataggio nottetempo da parte di UBS, salvo poi accorgersi di aver dato vita a un moloch in grado di squassare il mercato al primo, serio rovescio. Abbiamo avuto la crisi dei fondi pensione britannici, salvati dall’abisso solo dall’intervento della Bank of England e dalla retromarcia del governo sulla riforma fiscale. E poi abbiamo avuto la crisi delle banche regionali USA e il fallimento dell’iconica e simbolica Silicon Valley Bank, tale da aver spinto la FED a spalancare gli sportelli del suo bancomat di salvataggio prima e Discount Window poi. Infime, una sciabolata sul carry trade globale che, almeno per 24 ore, aveva fatto pensare al peggio.
Siamo praticamente nella medesima condizione del 2007. Anzi, peggio. Perché rispetto ad allora, il leverage di mercato è enormemente più grande e meno gestibile. E, soprattutto, il debito privato e pubblico globale è ormai ampiamente fuori controllo. Sapete quanto? Basta dare un’occhiata a questo ultimo grafico:
il quale ci mostra come la ratio debito/PIL statunitense abbia raggiunto le vette attuali solo in occasione della Seconda guerra mondiale. Sarà per questo che, ormai da anni, viviamo in uno stato di escalation bellica permanente ma senza che questa si tramuti realmente in guerra dichiarata? Basti guardare alla questione fra Iran e Israele: molta scenografia, moltissime minacce e proclami, pochi danni. Perché serve la percezione ma non ancora la deterrenza. E il Mar Rosso con gli attacchi degli Houthi contro petroliere e container, di fatto un telecomando dell’inflazione globale utilissimo per i regolatori? E l’offensiva ucraina su territorio russo, davvero ha colto di sorpresa Putin e il Cremlino? Oppure si è lasciata fare? Perché almeno fino al 5 novembre, data del voto presidenziale USA, nessuno può permettersi che i troppi detonatori attivati possano raggiungere l’innesco della bomba. Deve vedersi la fiammella. L’accendino. Ma guai alla prima esplosione.
C’è un problema, però. E sembra paradossale. Siamo talmente portati alla preoccupazione verso scenari di conflitto e crisi geopolitica da non renderci conto che l’innesco dell’incendio doloso sta sui mercati. E che le guerre servono a rendere sostenibili certe dinamiche che, altrimenti, avrebbero già attivato prezzature al ribasso. Per ora, almeno. Il pattern con il 2007 magari si interromperà. Ma la reazione degli indici, dei cambi valutari (occhio allo yen/dollaro, un’altra volta) e dei rendimenti obbligazionari all’annuncio di Jackson Hole fa capire come gli addetti ai lavori stiano prestando più attenzione di quanto si possa credere a quel parallelo. E infatti, i futures stentano a prendere una decisione precisa rispetto all’entità del taglio previsto per il 18 settembre. Sarà un quarto di punto oppure mezzo? E se qualche sorpresa macro costruita a tavolino o con la contabilità creativa dovesse spingere la FED ad attendere ancora, rimandando a ottobre?
Attenzione a quello che desideriamo, quantomeno stando agli eccessi di entusiasmo che eminenti esponenti del mondo economico italiano riservano al potere taumaturgico di quel taglio. Perché potremmo ottenerlo. Come accadde nel 2007.
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