Il tasso di ipocrisia che alberga dietro all’indignazione europea e alle sanzioni contro la Russia sta tutto nel timing scelto da Olaf Scholz per compiere il suo beau geste: sospendere la concessione a Nord Stream 2. Sospendere, appunto, anche se ieri da Munich Re filtravano voci di cancellazione del contratto. In attesa di sviluppi, restiamo all’ufficialità. Ovvero, decisione di sospendere. Verbo che presuppone la possibilità di riattivare. E soprattutto, gesto che possiamo definire nazionale e preso in anticipo rispetto alla sua inclusione in un secondo pacchetto europeo di provvedimenti punitivi, già annunciati in caso di ulteriore escalation russa in Ucraina.



Cosa significa? Semplice, se fosse stata Bruxelles a congelare le concessioni, queste sarebbero rimaste ferme per mesi e mesi. Forse per anni. Forse per sempre. Così, invece, è il Bundestag ad avere la prima e ultima parola al riguardo, in caso di de-escalation e ritorno al tavolo delle trattative. Berlino è tanto furba, quanto esposta e spaventata: non attende i tempi europei, fa la mossa per prima ma si garantisce la possibilità di annullarla a tempo zero. Perché senza gas russo, l’Europa è a pezzi. Possono inventarsi qualsiasi panzana alternativa ma la realtà è una sola e ce la mostra questo tabella: altro che trivellare il Mediterraneo, pregare in ginocchio il Qatar (Stato notoriamente attentissimo ai diritti umani) con la mediazione Usa oppure optare per la via israeliana. Se la Germania ha dato il via libera a quel mega-progetto di raddoppio della pipeline, ormai anni fa, è perché serviva. Come l’aria.



Ma guai a dirlo, per carità. Occorre essere tutti allineati e coperti. E, soprattutto, tutti schierati in base ai desiderata del Dipartimento di Stato, il vero promotore della crisi in atto insieme al suo burattino al potere a Kiev. I quali, d’altronde, hanno tutto da guadagnare dalla morte di Nord Stream 2: i primi per spezzare la dipendenza energetica europea da Mosca, tentando quindi di fiaccare (in modalità coltellata alle spalle) un alleato che in realtà è il primo competitor economico, i secondi perché altrimenti rischiano di perdere qualche vitale miliardo di diritti di transito del gas all’anno. Scusate la franchezza, ma di analisi alte e geopoliticamente profonde sono pieni giornali, talk-show e web in questi giorni, potete cercarle altrove: preferisco dire la verità. Esattamente come ha fatto martedì sera a Porta a porta il presidente Banca Intesa Russia, Antonio Fallico. Gelando la studio e un imbarazzato Bruno Vespa, il quale mai come in quel momento è stato felice di dover passare la linea alla regia per la pubblicità.



Dopo un’estenuante maratona di elucubrazione mentali al limite dell’onanismo sull’imperialismo 2.0 svelato dalla mossa di Putin nel Donbass, ecco che il banchiere collegato da Verona ha optato per una scelta più diretta: dire le cose come stanno. Prerogativa che, in effetti, nell’ultimo periodo lo ha visto finire più volte nel mirino del politicamente corretto. Il 14 dicembre scorso, ad esempio, quando in un articolo sul Sole24Ore smontò la retorica green senza tanti giri di parole, definendola un lusso dei Paesi ricchi. O il 17 febbraio scorso, in piena crisi ucraina, quando insieme al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana e all’imprenditore russo Sergey Sudarikov, diede vita a un seminario presso la Fondazione Feltrinelli a Milano. La colpa? Stando a Domani – il bollettino dell’ingegner De Benedetti che in quanto a ossequio verso il Dipartimento di Stato tramuta la redazione di Repubblica in un covo della Baader-Meinhof – trattare i russi addirittura come degli amici. E come partner. Accidenti, davvero un simposio di eversori. Tanto da veder presenti l’Ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, il ministro delle Relazioni economiche, Serghei Cheremin e il banchiere Mikhail Volkov. Praticamente un’adunata sediziosa da sciogliere con l’intervento della celere. Quantomeno per il Navalny Fan Club. In un Paese normale, invece, sarebbe stato visto per ciò che è: un incontro fra due nazioni non alleate ma amiche e con un interscambio commerciale davvero non trascurabile. Ma, appunto, possiamo definire normale un Paese dove l’accusa di essere filo-russo (praticamente un gradino al di sotto dello status di serial killer di vecchiette) è stata rivolta addirittura contro Franco Frattini, quando il suo nome fece capolino nelle candidature per il Quirinale?

Ed eccoci all’exploit di Antonio Fallico, quasi certamente destinato a chiudergli per sempre – scusate il calembour – le porte di Porta a porta. Perché a fronte di una discussione sul sesso degli angeli attorno alle sanzioni, ha infilato una serie di cifre in stile sventagliata di mitra. Anzi, in questo caso di kalashnikov. Non smentite da alcuno fra gli straordinari analisti geopolitici in studio, ovviamente. In ballo per l’Italia non ci sarebbe infatti un interscambio da 20 miliardi ma già da 26,6, stando a dati freschissimi e riferiti al quarto trimestre 2021 e un export italiano non nell’ordine di 10 miliardi ma ormai in area 12. Poi, la bomba: dal 2014 a oggi, anno dell’annessione della Crimea e delle sanzioni contro Mosca, le ovvie contro-sanzioni russe sono costate all’economia italiana 1,4 miliardi. Al mese, però. E attenzione, il tutto dopo aver sfidato l’ira di viale Mazzini, cominciando il proprio intervento in maniera molto sobria: «L’escalation cui stiamo assistendo è frutto della volontà di scontro di Usa e Ucraina, i primi mossi dal ricatto della lobby bellico-industriale verso un Biden in crisi nei sondaggi e a nove mesi dal mid-term, i secondi dal timore di Zelensky verso una componente nazionalista interna che sfiora apertamente il filo-nazismo nel suo sentimento anti-russo». Praticamente, come bestemmiare in chiesa. Forse peggio, stando al rito laico del maccartismo all’amatriciana. Nessuno, però, in studio ha interrotto Antonio Fallico per smentirlo o per chiedergli conto di quanto stesse dicendo, magari tacciandolo di disinformazione al soldo del Cremlino. Pubblicità, la via d’uscita maestra dall’imbarazzo e dall’ipocrisia.

Signori, qui di reale c’è una cosa sola: le sanzioni sono il potenziale cavallo di Troia con cui diverrà scalabile in maniera ostile ciò che di buono ancora l’economia italiana può offrire, poiché fiaccando quell’interscambio si colpiscono aziende d’élite del nostro export o punte di diamante come il lusso, il tutto in un momento di crisi ormai pronta a deflagrare sotto i colpi di un’inflazione e di un rallentamento mortale. E state certi che qualche nostro partner sarà pronto a farne un sol boccone, a prezzo di saldo. E una volta terminato il banchetto, ci ritroveremo senza nemmeno sapere come sulla corsia preferenziale verso l’attivazione del Mes.

Tanto vi dovevo, se invece preferite credere che Putin punti a far abbeverare i cavalli a San Pietro, liberissimi. Almeno, per ora. E fino a quando deciderà il Dipartimento di Stato o la sua dependance con sede distaccata a Bruxelles, come mostra questo illuminante tweet di autolesionismo o intelligenza con il nemico del responsabile della Politica estera, Josep Borrell.

Perché nei Palazzi dell’Unione, ultimamente le decisioni appaiono un po’ troppo assunte su diretta dettatura di Washington. Chissà, magari è solo un’impressione. In compenso, permettetemi di darvi un consiglio, relativamente a un proxy interessante: nel nostro Paese sono un po’ troppi i titolari di Legion d’Onore, seguitene le mosse nei prossimi mesi. Chi vuole intendere, in vista del sacco d’Italia, intenda. Alla faccia del Patto del Quirinale.

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