Quando ho voglia di fare un “bagno” nella pancia del Paese, quando mi serve che il termometro dell’ipocrisia più ingenua segni la temperatura al grado di destabilizzazione in atto, faccio un giro su Facebook. Solitamente, in date simbolo. E l’11 settembre è la data simbolo. Quantomeno di questa nostra epoca.
Così ieri mi sono avventurato fra i meandri dei pensieri social della Rete e ho cercato di capire cosa stesse accedendo. La risposta è stata abbastanza in linea con le attese: quasi nessuno si è reso conto di essere dentro un videogame.
Alcuni “amici” leghisti maledicevano il governo Conte-bis e tacciavano di tradimento senza possibilità di redenzione i 5 Stelle, altri utenti rinfacciavano a Matteo Salvini la rottura primigenia del patto di governo e la necessità di non gettare all’aria quanto ancora restava da fare, pur con il naso in parte montanellianamente turato.
Alcuni di area Pd o di sinistra più spinta invocavano il male minore e altri artifici strategici di leninista memoria, tanto per non ammettere che il ritorno al governo con il 20% di consensi nel Paese reale era un’occasione da non perdere.
Poi c’era l’11 settembre, un ricordo sbiadito. Qualcuno condivideva gli attimi della tragedia, menzionando le attività quotidiane che stava svolgendo, quando la notizia ha cominciato a circolare. Qualcuno pubblicava una foto dello schianto, del Memorial, altri degli eroici pompieri in azione, altri rilanciavano articoli sulle ricostruzioni alternative di quel giorno, la moderna Pearl Harbour.
Ho chiuso Facebook e mi sono messo a pensare al nostro tempo, ai giorni che stiamo vivendo: signori, ogni tanto un 11 settembre è necessario. Sto parlando paradossalmente, è ovvio. Ma nemmeno troppo. Se vogliamo continuare a vivere in un mondo a debito e a rate, dove tutto è a disposizione di tutti, ogni tanto serve un reset globale di quelli spaventosi. Serve un 1999-2000 con la bolla dot.com. Serve un 2007-2009 con la grande crisi finanziaria. E serve un 11 settembre, al netto di cosa realmente mosse qualche mano forte a scommettere pesante al ribasso con opzioni quella mattina di 18 anni fa. Con timing quantomeno sospetto.
Il mondo non può vivere al di sopra delle proprie possibilità senza pensare che questo comporti un prezzo da pagare: è come pensare di poter fumare 40 sigarette al giorno per una vita e non avere, prima o poi, problemi di cuore o ai polmoni. Può capitare di arrivare a 100 anni e spegnersi serenamente senza aver mai visto la corsia di un ospedale, ma è un caso, la normalità è altra. E contempla la necessità di “purgare” il sistema, quando questo ha esagerato. È ciclico, inutile negarlo.
E oggi siamo nel pieno di uno di quei momenti di dieta, in modo tale che la ruota possa continuare a girare. Certo, questo contempla che l’1% del mondo diventi ancora più ricco, ma anche che noi, normali cittadini con patrimoni normali, possiamo continuare a prendere a rate e con il credito al consumo smartphone, automobili e quant’altro non potremmo permetterci in un mondo che non anneghi nell’indebitamento strutturale come forma di sviluppo economico.
Vale per tutti, non pensiate che sia una questione meramente occidentale, “capitalistica”. Guardate questo grafico.
Ci mostra come per il 14° mese su 15 il mercato delle automobili in Cina abbia patito un calo, addirittura del 9,9% nel mese di agosto concluso da poco, ad appena 1,59 milioni di unità. E come vedete, nell’ultimissimo periodo, il trend è andato in risalita: non pensiate che il vento stia cambiando, è soltanto il frutto dell’ennesima campagna di finanziamento e incentivazione green varata dal governo per tamponare l’emorragia. Non c’è più domanda, siamo alla saturazione. D’altronde, quante auto dovrebbe possedere una famiglia cinese media per soddisfare le mire di sovra-produzione dei mandarini di Pechino?
Non a caso, proprio l’altro giorno la Cina ha stupito tutti, abbattendo parecchi vincoli legati all’acquisizione di asset da parte di stranieri: qualcuno ha venduto la notizia come vera rivoluzione, come apertura al concetto di libero mercato. È solo disperazione da investimenti esteri diretti, visto che, stando a un sondaggio condotto dalla Camera di Commercio Usa a Shanghai, il 26% dei rispondenti ha ammesso di aver accelerato le pratiche per andarsene dalla Cina con la propria attività in risposta al regime tariffario e al nuovo clima ostile fra i due Paesi.
Guarda caso, nelle stesse ore Pechino esentava per un altro anno – fino al 16 settembre 2020 – dal regime di nuova tariffazione sedici categorie merceologiche americane, fra cui farmaci anti-cancro e mangimi per animali e lubrificanti industriali.
Insomma, signori, Donald Trump sta vincendo la guerra. E, soprattutto, sta prendendoci gusto a fare il Presidente. Perché quella disputa commerciale doveva servire solo come antipasto di un reset controllato e incruento che garantisse alle relative Banche centrali l’alibi per tornare a stampare, senza che i governi dovessero rimangiarsi promesse di normalizzazione delle politiche monetarie e fiscali in maniera troppo palese. Invece, pare proprio che The President voglia affondare il colpo. Perché qualcosa sta cambiando negli Usa. Sotto la pelle del potere, nel Deep State più profondo, qualcosa si è evoluto in una direzione non programmata. Guardate questo grafico.
Ci mostra plasticamente come la propaganda anti-Trump di media e Democratici stia funzionando: in caso di recessione, la maggior parte dei rispondenti vedrebbe la Casa Bianca e le sue scelte politiche come principali responsabili. E non la Fed, come invece parossisticamente indicato dallo stesso Donald Trump, il quale non più tardi di ieri ha “invitato” ancora una volta la Banca centrale ad abbassare i tassi a zero o sotto zero.
La stessa Cnn, sempre ieri, ha reso noti i risultati di un sondaggio in base al quale il 60% degli americani interpellati non riterrebbe Trump degno di un secondo mandato. Diverso, però, il risultato, quando si va a chiedere agli agricoltori del Mid-West cosa pensino della gestione attuale della loro crisi di settore: la stragrande maggioranza incolpa lo Usad, il Dipartimento per l’Agricoltura, e assolve il Presidente, il quale è visto come l’uomo dei piani di sostegno al comparto, l’unico who cares. Mentre i burocrati di Washington dormono o pensano solo a Wall Street e alle grandi metropoli.
E vi pare un caso che, in piena escalation economica, dopo mesi di narrativa del boom del secolo, l’aria stia cambiando nelle stanze del potere americano? Guardate quest’ultimo grafico.
Ci mostra come la fiducia dell’americano medio nel mercato azionario abbia bruciato tutti i guadagni a livello di sentiment ottimista generati durante i rally della presidenza attuale. Insomma, nemmeno il parco buoi compra più la favola di Wall Street ai massimi record, nessuno crede più a prezzi che saliranno ancora nei prossimi mesi. Nonostante l’ipotesi, sempre più probabile, di una Fed che la prossima settimana mostrerà a tutti una faccia da colomba. Oppure no? Oppure alla Casa Bianca hanno subodorato un ingaggio di Jerome Powell da parte degli avversari politici, una discesa in campo della Banca centrale contro l’attuale amministrazione? Si teme, insomma, un boicottaggio della politica monetaria al fine di stimolare un crash dei mercati che venga addossato totalmente sul Presidente e con timing perfetto per le primarie?
Non mi sento di escludere nemmeno questo, affatto. Non a caso, in quattro e quattr’otto, non solo le manovre sotterranee dell’amministrazione Usa in Afghanistan si sono disvelate al mondo, con la rinuncia del Presidente all’incontro con i Talebani, ma, a stretto giro di posta e via Twitter, Donald Trump ha liquidato il potentissimo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, l’uomo dei neo-con vecchia maniera in seno all’amministrazione sovranista. Un segnale chiaro che il Presidente ha voluto lanciare al Deep State: se volete la guerra, a questo punto sono disposto a farla.
Davvero Donald Trump ci ha preso gusto e, al netto di tutto, vuole giocare la sua folle, solitaria, incredibile corsa verso un secondo mandato? L’idea non pare peregrina, a questo punto. Perché, attenzione, per la prima volta da molto tempo, Wall Street ha davvero paura, i livelli di leverage sono realmente al limite del sostenibile e un minimo scostamento dei tassi di interesse innescherebbe uno shock sul VaR che in pochi potrebbero sostenere. Intere banche d’affari andrebbero a zampe all’aria nel giro di una giornata di contrattazioni, si rischia una catena di Lehman Brothers, di gente che perde tutto e di trader che escono con le scatole di cartone in mano, dopo aver riconsegnato i badge agli uscieri.
È sopravvivenza allo stato puro, quella che si staglia all’orizzonte. In Cina come negli Usa, nel Far-East come in Europa: sto dicendovi che, forse, un nuovo reset epocale potrebbe rendersi “necessario”? Lo avete detto voi.