Il segnale più politico dell’addio di Shinzo Abe alla carica di primo ministro giapponese sta tutto nella rapidità con cui la Bank of Japan si è affrettata a rassicurare i mercati: “Non ci saranno cambiamenti nella politica monetaria”. Perché per quanto la formalità dei ruoli lo neghi, Shinzo Abe è stato il vero deus ex machina del più grande esperimento di monetizzazione del debito emerso come naturale conseguenza dal cataclisma finanziario del 2008.



Non a caso, l’attività onnivora della Banca centrale nipponica ha assunto per tutti il nome di Abenomics, nonostante le scelte del board facciano formalmente capo al governatore, Haruhiko Kuroda. E il motivo per cui la BoJ abbia immediatamente lanciato il proprio salvagente ai mercati non sta tanto e solo nella chiusura negativa del Nikkei sull’onda dell’indiscrezione delle dimissioni a causa di motivi di salute, bensì in quanto mostrato da questo grafico.



Dopo il primo addio di Shinzo Abe alla politica attiva nel 2007, sempre legato a problemi di salute, nei sei mesi successivi all’annuncio l’indice Topix (Tokyo stock Price IndeX, 1.700 aziende quotate) scese del 18% contro il solo -7% dell’indice benchmark globale Msci. Inoltre, stando a calcoli di Bloomberg, nello stesso arco temporale lo yen si rafforzò del 12% sul dollaro. Insomma, il timore è quello di un dèjà vu in tutto e per tutto. Questa volta, però, in pieno clima da seconda ondata di pandemia e, soprattutto, con la stessa BoJ che sembra aver messo in campo tutto l’arsenale di stimolo possibile, a differenza del 2007 quando gli esperimenti monetari straordinari delle Banche centrali erano ancora alla fase pressoché embrionale.



Inoltre, il timore è che al premier appena dimessosi (solo pochi giorni dopo aver tagliato il traguardo del più lungo mandato di governo dal Secondo dopoguerra), possa succedere il suo storico rivale, il falco ex ministro delle Difesa, Shigeru Ishiba, il quale potrebbe essere tentato dalla carta della discontinuità di politica economica, un qualcosa che terrorizza tanto la Bank of Japan, quanto gli investitori.

Ma al netto delle prospettive, l’addio di Shinzo Abe a poche ore dalla rottura del tabù inflazionistico da parte della Fed, sembra quasi un omen oscuro rispetto alla presunta e millantata onnipotenza proprio delle Banche centrali nel contrastare i marosi finanziari che, di volta in volta, si palesano sul cammino di indici azionari parossisticamente sempre al rialzo, al netto di dati economici macro di tutt’altra natura.

Questo grafico rappresenta e sintetizza al massimo della crudezza la legacy, l’eredità che lo Shinzo Abe post-Lehman lascia al mondo del Qe perenne: dalla sua rielezione nel 2012 in poi, infatti, la ratio fra bilancio della Banca centrale giapponese e Pil è letteralmente esplosa, passando da un circa 30% all’attuale 120,8%. Il tutto, ovviamente, dovuto a politiche espansive spinte all’estremo, tanto che la Bank of Japan, attraverso i suoi acquisti di Etf, oggi figura fra i primi cinque azionisti del 90% delle aziende quotate sull’indice Nikkei 225. Inoltre, l’Istituto centrale opera di fatto come prestatore di unica istanza rispetto al debito pubblico, poiché attraverso la politica di controllo sulla curva dei rendimenti, creata affinché il decennale resti in area 0% di premio, il debito sovrano nipponico è passato da security a reddito fisso con maggiore volume di trading al mondo a praticamente deserto di investitori privati.

La BoJ gestisce di fatto le emissioni e i fondi pensione e di investimento a controllo statale, più o meno diretto, acquistano per conto di pensionati e casalinghe giapponesi, la mitica Miss Watanabe che nel mondo degli affari si evoca quando si vuole descrivere un investitore che si fida ciecamente dei consigli ottenuti in banca e non controlla pressoché mai l’andamento del portfolio.

Certo, un’operazione simile nasceva come combinato congiunto di due emergenze: scongiurare il fall-out finanziario del crollo Lehman e contrastare sul nascere il fantasma della deflazione che portò il Giappone alla cosiddetta lost decade, sostanziatasi tra il 1991 e il 2001 a seguito dell’esplosione della bolla speculativa del 1989. Insomma, un po’ come l’ossessione tedesca per la defazione che affonda le sue radici nella tragedia ex post di Weimar, così Tokyo ha probabilmente ultra-reagito alla minaccia.

Ma, alla luce dei risultati macro vissuti negli ultimi cinque anni, l’arsenale di liquidità messo in campo e l’espansione ormai fuori controllo del bilancio della Banca centrale appaiono come sforzi degni di miglior causa e di più razionale applicazione, stante il Pil del secondo trimestre di quest’anno ai minimi dal 1956. Di fatto, l’appello della BoJ al mercato subito dopo l’annuncio di Shinzo Abe, appare – esattamente come il raschiamento del barile posto in essere dalla Fed, costretta ad appigliarsi allo spettro inflattivo per tranquillizzare tutti rispetto ai tassi a zero pressoché perenni – come una sorta di grido del Re è nudo, un’ammissione di spalle al muro dopo anni e anni di politiche straordinarie che mostrano ora non soltanto i propri limiti operativi e di efficacia, ma anche i danni da deviazione strutturale che hanno inferto ai mercati e al loro funzionamento, quello obbligazionario sovrano in primis, ormai privato di qualsiasi processo di price discovery.

Lunga vita a Shinzo Abe, uomo oggi chiamato a una battaglia ben più dura di quella politica, ma attenzione a non sottovalutare il messaggio insito nel suo gettare la spugna, se letto attraverso la lente di personalizzazione dell’Abenomics. Le Banche centrali non sono onnipotenti. E stampare moneta solo per tappare i buchi di un lavandino che ormai sta per vedere le proprie tubature esplodere rischia di raddoppiare il problema, più che risolverlo.

E chi guarda agli adoratori nostrani dell’autarchia debitoria come apostoli di una facile via d’uscita a supposte dittature tecnocratiche e presunti rigorismi affama-popoli è avvisato. Non ci sono pasti gratis. Nemmeno a base di sushi.