I conti con l’oste, prima o poi, tocca sempre farli. Uno degli adagi più noti di Wall Street, infatti, è che al mondo “non esistono pasti gratis”. Purtroppo, stiamo per averne conferma sulla carne viva. E non mi riferisco al balzo dello spread già in apertura di contrattazioni, lì siamo ancora nel campo delle intimidazioni da teatro dell’assurdo. Mettetevelo in testa, finché c’è la Bce alle spalle, nessuno ti attacca veramente. Diverso sarà se, giovedì prossimo, Mario Draghi non invierà un segnale chiaro di intervento più deciso. Allora anche l’effetto placebo del suo scudo potrebbe venire meno. Il problema sta dall’altra parte dell’Oceano, come scrivevo nel mio pezzo di ieri. Gli Usa sono un vero e proprio teatro di guerra fra corpi intermedi e blocchi di potere, ancorché i media non ne descrivano l’entità in maniera chiara.



Ieri mattina è bastata la minaccia di Donald Trump di dazi fino al 25% contro il Messico dal 1 ottobre, legati alla questione immigrazione, per far sbandare le Borse europee come pattinatori inesperti sul ghiaccio: in cima ai tonfi, Italia e Germania. Alla guida dei cali a Piazza Affari c’era Fca, nonostante l’abbrivio positivo dei giorni scorsi sulla scorta della possibile fusione con Renault e la conseguente partnership strategica in Giappone con Nissan-Mitsubishi. La guerra commerciale è questo, un effetto domino di minacce che, potenzialmente, sortisce effetti reali. E immediati.



Basti pensare che, non più tardi di dieci giorni fa, lo stesso Trump aveva lanciato un clamoroso ramoscello d’ulivo proprio a Messico e Canada sulla questione dei dazi agricoli in chiave anti-Cina (Pechino compra la sua soia per miliardi dal Messico, dopo la partenza della guerra tariffaria), un qualcosa che aveva fatto tirare un sospiro di sollievo ai mercati a livello globale. Ma non basta, perché in questo momento e con questa mossa, Trump unisce al fronte interno con il Messico su una questione dirimente – in vista del voto nel 2020 – come la sicurezza, quello estero. Non tanto e non solo della “concorrenza sleale” nel campo automotive, ma con un chiaro messaggio di minaccia all’Europa intera sul nuovo fronte aperto da un paio di giorni: l’embargo contro l’Iran, vicenda che Washington intende cavalcare in stile nordcoreano e che impone il pugno di ferro contro chiunque si opponga.



E in questo Risiko spaventoso, l’Italia rispetto agli altri Paesi sconta anche una criticità in più: la suicida decisione di questo governo di firmare il memorandum con la Cina non più tardi della fine di marzo scorso. E, non a caso, il nostro Paese è finito nella lista dei Paesi sotto osservazione da parte del Ministero del Tesoro statunitense. Non dovevano comprarci Btp con il badile, amici sovranisti? Dove sono quei geni della politica e dell’economia che declamavano – anche da queste pagine – le magnifiche sorti e progressive dell’Italia giallo-verde, cui “l’amico Donald” avrebbe risolto tutti i problemi post-Qe, permettendoci di fare una bella pernacchia a Mario Draghi? Tutti spariti. Immagino e spero per decenza. Vogliamo fare come il Portogallo, prossimo Paese che capirà suo malgrado come si sta al mondo, quando quest’ultimo è in lotta senza esclusione di colpi per la sua leadership?

Lisbona, infatti, sarà il primo Paese europeo a emettere bond sovrani denominati in yuan: auguroni, immagino che passeranno un’estate movimentata. Ciò che non vogliamo capire – non per stupidità, ma per incapacità dei media di leggere la realtà oltre ai dati della cronaca quotidiana – è che la Germania è in ginocchio a causa della guerra fra Cina e Usa. Il 29 maggio, infatti, Berlino ha patito una delle peggiori docce fredde del Secondo dopoguerra. Veniva diffuso il dato sulla disoccupazione relativo al mese di maggio, con gli analisti che attendevano un calo ulteriore dei senza lavoro per 8mila unità. Sapete com’è andata? Un aumento degli stessi per 60mila unità, la peggior lettura dalla crisi finanziaria e un qualcosa che ha fatto salire il tasso generale di disoccupazione dal 4,9% al 5%, come mostra il grafico.

Direte voi, roba da poco. Per l’Italia o la Grecia certamente. Ma non per la Germania. E, paradossalmente, più a livello psicologico che reale, contingente. Ovviamente, il rendimento del Bund è precipitato sotto zero, parziale spiegazione tecnica dei sommovimenti del nostro spread. La Germania ha avuto la conferma statistica dei primi, reali sintomi recessivi. Non è più rallentamento, è proprio crisi. E vogliamo parlare dell’indice Ifo, quello relativo al sentiment del settore imprenditoriale tedesco? A maggio è calato ai minimi da quattro anni, come mostra questo altro grafico.

Ecco, signori, in poche righe, un quadro d’insieme del caos in cui stiamo per entrare. E come stiamo entrandoci? Come qualcuno che si appresta a scalare l’Everest in bermuda e infradito. Senza alleanze in Europa su cui contare per fare fronte comune, anzi con molti nemici; con un Governo che sta insieme con le toppe, litigioso e ormai diviso su tutto; con un debito che continua a salire e un comparto bancario che ormai sta per alzare bandiera bianca, ammettendo di fronte a tutti le sue criticità e fragilità strutturali, in primis il doom loop legato all’eccesso strutturale di detenzioni di quel debito così soggetto allo spread e alle variazioni di valore da contabilizzare; con un’economia reale che campa, ormai da anni, con gli 0,1% di aumenti, quando siamo così fortunati da poterli registrare. Bene signori, la locomotiva tedesca sta per fermarsi in aperta campagna, non ce la fa più: cosa vi avevo detto, quale è stata la prima e – per ora – unica, reale vittima della guerra commerciale fra Usa e Cina? L’Europa, oltretutto nelle sue componenti più sistemiche, ancorché quasi antitetiche, come Germania e Italia.

Ora, io capisco che non si possa proprio rimangiarsi tutto nella vita in nome del potere e della sua perpetuazione, capisco anche che uno possa essere così squilibrato da pensare realmente di risolvere i suoi problemi uscendo dall’euro in una condizione simile ma c’è un limite. Questo grafico ce lo mostra plasticamente, quel limite: vi serviva qualcosa di quasi tattile, oltre che intuitivo, nel mostrare quanto la Bce abbia finora difeso il nostro spread, ovvero il rischio potenziale di aumento del costo del servizio del nostro debito monstre? Eccolo qui, guardate quella linea bianca, non vi pare una palese linea Maginot?

Dal 2015, inizio del Qe, continua a salire e, per quanto molto meno ripidamente, cresce ancora anche dall’inizio del 2019, data che formalmente doveva sancire il termine degli acquisti. Bene, quell’arco che prosegue la sua traiettoria a schermo sono i reinvestimenti dei titoli in detenzione decisi lo scorso novembre da Mario Draghi, in pieno contrasto con la Bundesbank, proprio in previsione della fine del programma di stimolo e in modo da garantire coperture sulla curva dei rendimenti al nostro debito per almeno un altro anno. D’altronde, basta guardare le scadenze medie: la Bce ha in pancia circa 370 miliardi di debito italiano con maturity media di 7,7 anni. Mario Draghi, lo ripeto per l’ennesima volta, dovrebbe ricevere in dono da questo esecutivo una statua equestre a piazza Colonna, perché lo spread senza Bce già oggi sarebbe ai livelli berlusconiani del 2011. O poco distante, viste le politiche economiche ridicole e tutte a deficit messe in campo.

E giovedì, intervenendo al Festival dell’economia di Trento, il ministro Tria ha gettato la maschera, quando ha auspicato un cambio dei regolamenti di governance dell’Eurotower che permetta l’utilizzo di moneta stampata dal nulla per finanziarie un grande piano di investimenti in Europa. Di fatto, un’altra Fed o un’altra Bank of Japan, la quale – come si sa – con la scusa dell’inflazione bassa mantiene artificialmente in vita il Nikkei, comprando Etf e tutto ciò che si muove nell’aria. È tardi, signori. Non valeva forse la pena di essere onesti con gli italiani, dal 2012 in poi e imporre dei sacrifici invece che regalare mancette elettorali, a partire dagli 80 euro? Forse, unendo a un minimo di buona volontà nella riduzione del debito anche la capacità diplomatica e la modestia di chiedere una sponda ufficiosa a Mario Draghi, invece di collezionare ego esorbitanti a palazzo Chigi, qualcosa di più sistemico lo avremmo potuto ottenere. In primis, un Paese meno squilibrato nei conti pubblici e con meno privilegi e rendite di posizione per i soliti, tantissimi noti. Invece no, guerra su tutti i fronti. Ognuno doveva gonfiare il petto e mostrarsi decisionista al comando, come in un film di Hollywood.

Il risultato, dal 2012 in poi? Eccolo, plasticamente sotto i nostri occhi. Ora la strada è stretta e quasi obbligata. Occorre paradossalmente sperare in un peggioramento tale della situazione, a livello globale ma soprattutto per quella Germania che ancora distribuisce le carte sul tavolo, da convincere tutti – Bundesbank in testa – che Mario Draghi deve tornare, ancora un volta, in modalità Whatever it takes. Altrimenti, siamo fritti. Ma si sa, questi fenomeni al Governo e i loro cantori ci avevano garantito che il debito lo avrebbe comprato “l’amico Donald”. Infatti, da novelli Pico della Mirandola che sono, hanno firmato il memorandum – operativo, nemmeno d’intenti – con la Cina. E infatti, nell’arco di un mese, prima BlackRock scarica Carige dalla sera alla mattina e ieri, sempre senza preavviso, Whirlpool abbandona il tavolo al Mise e annuncia la chiusura tout court dello stabilimento di Napoli. Fortuna che Donald era loro amico, pensa gli stavano sulle cosiddette… Infine, vista la mala parata, hanno affidato ogni residua speranza alla panzana dell’onda sovranista alle europee che avrebbe cambiato non solo gli equilibri, ma, addirittura, il paradigma dominante. Insomma, basta regole, basta vincoli e, soprattutto, basta spread, visto che si sarebbe potuto imporre un futuro giapponese alla Bce.

Il due di picche ricevuto dal ministro Salvini da Viktor Orban – uno che il Ppe non lo molla facilmente, perché sa che senza Ue il suo Paese finirebbe a pietire acquisti sotto costo dei cinesi – in vista di nuove alleanze a Bruxelles, mi pare la fotografia più emblematica di come anche questa scommessa si sia rivelata fallace. E, soprattutto, di come fosse folle e disperata fin da principio. Insomma, Dio ci preservi le élites e la cosiddetta “Europa dei banchieri e dei burocrati”, se questa è l’alternativa democratica e popolare che il sovranismo ha da offrirci.