L’11 settembre il Tesoro ha fatto il pienone con l’asta di Btp trentennale. Domanda 16 volte l’offerta, 130 miliardi di richieste. Battuto anche il record precedente. Risalente al 2020. Ovvero, quando si prezzava uno tsunami di liquidità e sostegni per far ripartire l’Europa dalla pandemia. Il giorno seguente a quell’asta, la Bce ha tagliato i tassi. Tutti lo sapevano. Tutti lo prezzavano già da giorni. E tutti, quindi, si lanciavano alla ricerca di rendimento. E il Btp a 30 anni lo offriva. Il 4,3% annuo su due cedole semestrali. Se ponderato al rischio Paese, mica male. O preferite rischiare in Turchia? Non a caso, ritorno degli investitori esteri.
Fin qui, tutto noto. Ma l’11 settembre è successo anche altro. Un qualcosa che è stato reso pubblico solo due giorni dopo, il 13 settembre. Ovvero, Mario Draghi ha incontrato Marina Berlusconi. Alla presenza di Gianni Letta. Prove tecniche di un 2011 indolore. Ovvero, senza l’allarme spread. Anzi, riempiendo le aste del Tesoro. In quanti fra i grandi investitori esteri accorsi a fare incetta di quel Btp offerto solo per 8 miliardi di controvalore, infatti, sapevano prima di quell’incontro? Certamente non lo sapevano al Mef, altrimenti non aumentare l’offerta sarebbe stato un suicidio. Ma tra i fund manager, quanti sapevano almeno che la tela lanciata in sede europea con la famosa e irrealizzabile agenda Draghi – non a caso, bocciata a tempo zero dalla Germania – aveva in realtà come fine ultimo l’imposizione dei caratteri più drastici della stessa – in termini di riduzione della spesa (Inps in testa) e ritocchi catastali e sui risparmi privati – a livello interno. Come? Un Governo tecnico o quantomeno misto, dopo un rimpasto da tempo auspicato dal partito-pontiere che è Forza Italia.
Si prezza un Draghi-bis senza Draghi-bis in quei 130 miliardi di domanda per rifinanziare il nostro debito a lungo termine? Viene da chiederselo. Ancor di più dopo il terremoto che ha investito Matteo Salvini alla requisitoria del processo Open Arms. Sei anni di carcere. Perché si sa, l’ostacolo all’agenda Draghi è la Lega. E solo la Lega. Fratelli d’Italia non ha problemi. Non a caso, domani Mario Draghi sarà a palazzo Chigi. E certamente non per una rimpatriata con il personale.
Ora date un’occhiata a questo link. Dopo i regolatori Usa che hanno dimezzato dal 19% al 9% l’aumento dei requisiti di capitale per le banche sistemiche al fine di tamponare crisi inattese, certificazione che quei 516 miliardi di unrealized losses che gravano sul sistema stanno per reclamare qualche agnello sull’altare dei tassi, ecco che anche la Bce pare pronta a cedere al pressing degli istituti di credito. Sulla questione dei prestiti facili a entità fortemente indebitate, il colpo di spugna pare alle porte. Casualmente, in Italia e in contemporanea riesplode la baruffa chiozzotta degli extra-profitti, la farsa di tutte le farse elettorali. E chi si erge subito a difesa delle banche, mostrando il petto nel difenderne le casse, dopo aver consentito agli istituti di non pagare un euro e utilizzare il surplus per ricapitalizzarsi? Antonio Tajani. Lo stesso che ha criticato apertamente la troppa timidezza Bce sul taglio dei tassi. Pur essendo ministro degli Esteri. Non delle Finanze. O Governatore di Bankitalia. Entrambi silenti sul tema. In compenso, è Segretario di Forza Italia. E non a caso, l’anima barricadera e missina di FdI, Ignazio La Russa, lo ha stuzzicato in maniera tutt’altro che rituale, quantomeno per la seconda carica dello Stato. In parole povere, ha detto in faccia all’alleato che il suo nervosismo fa capo alla necessità di tutelare la banca di famiglia. Ovvero, Mediolanum.
Tout se tient? Se sì, la situazione deve essere davvero a rischio. Perché dopo il mezzo golpe delle Europee e quello dell’Eliseo, ora la vernice della normalizzazione passa dal pennello all’idrante. E il clamoroso addio polemico di Thierry Breton alla Commissione europea, motivato con un’aperta accusa di ridimensionamento del suo ruolo da parte di Ursula von der Leyen, parla chiaro sul clima che alberga a Bruxelles. Perché parliamo del Commissario all’Industria e al Mercato interno. Nel pieno di una crisi industriale tedesca senza precedenti. E con l’Eliseo che non ha battuto ciglio e immediatamente designato il suo sostituto in Stéphane Séjourné. L’attuale ministro degli Esteri francese. Scelta tutt’altro che peregrina. La Francia è quantomai al centro del Risiko. Ma quanto sta avvenendo in queste ore, mentre la politica tarda a digerire gli ultimi bocconi del caso Sangiuliano, ci dimostra come l’Italia sia ancora il vero elefante nella stanza. E Mario Draghi il domatore.
Ma attenzione alle false speranze e alla logica del debito buono. Qui di buono c’è solo il servizio, la dote, il corredo. Ma a occhio e croce non verrà messo al sicuro, lontano dalle anche possenti e scoordinate dell’elefante. Viene messo all’incasso. Più che un 2011, forse un 1992. Silenzioso.
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