Lo short squeeze da gatto morto di New York Community Bancorp ha già perso slancio. E, contestualmente, Janet Yellen ha ammesso candidamente che appare inevitabile che il sistema sia destinato a incorrere in perdite legate al real estate commerciale ma come queste risultino gestibili. Fino a qualche settimana fa, quei prestiti allegri legati al mattone non erano nemmeno annoverati fra i rischi. Valutate voi quanto quella quantificazione rassicurante abbia vita breve. E ponderate le conseguenze, stante le esposizioni a livello globale.
Ma realmente tutto questo ci interessa? E il fatto che a porre questo interrogativo sia uno che di queste cose scrive praticamente ogni giorno, forse potrebbe garantire a queste righe quel minimo di interesse che l’eventuale assenza della solita gragnuola di grafici e cifre potrebbe minare. Perché in un mondo in cui il titolo Maersk crolla del 15%, occorre porsi altre domande.
In primis, la ragione. E la verità è una sola: il titolo del colosso dello shipping giovedì è andato a fondo – nomen omen – per la sospensione del buyback. Decisa, comunicata ed estesa fino a quando le condizioni di mercato non lo permetteranno. Quale mercato, però? Quello che continua a salire a prescindere, quello dello Standard&Poor’s che in contemporanea con l’inabissarsi di Maersk toccava per la prima volta quota 5.000 punti, convinto che la Fed farà il suo dovere e soprattutto che quanto accade sotto il tappeto delle unrealized losses sia solo uno stress test? O il mercato inteso come merci da spostare, imballaggi, bancali, supermercati da riempire, scorte da rendere disponibili? Roba, nell’accezione verghiana e mercantilista del termine.
Probabilmente non lo sanno nemmeno loro. Probabilmente, il management che ha parlato di un rischio di container glut later non può ammettere pubblicamente che tutto ruota attorno alla pratica del riacquisto di propri titoli. Che abbassa il flottante, tiene alte le valutazioni e, soprattutto, garantisce dividendi. Non può. Perché se chi maneggia pallet ragiona come chi elucubra swaps, allora siamo davvero al game over. E nessuna Banca centrale può stampare il buon senso. Basta guardare l’andamento del titolo di Maersk.
Nelle scorse settimane, gli Houthi potevano sparare sul Mar Rosso con la cerbottana o con sistemi russi S-300, indistintamente. A scelta. E nulla avrebbe turbato il trading quotidiano. Dettato da tutto, tranne che dal re-routing forzato e bellico delle tratte commerciali. Poi, di colpo, arriva lo stop al buyback. E tutto crolla. Più che altro, cade la maschera. Ma è la discesa negli inferi del ridicolo di John Travolta a Sanremo che tiene banco. Le homepage non parlano d’altro. Si attendono question time e interpellanze parlamentari. Mentre nei distretti di Firenze e Prato la crisi comincia ad assumere le sembianze della cassa integrazione. Ordinativi fermi. E parliamo di griffe. E parliamo di terzisti di primissimo livello. Di manifattura di gamma. Tutto fermo. Mentre la Germania industriale letteralmente sprofonda e peggiora, come descritto nell’articolo di ieri. Preannunciando uno spillover sul comparto della componentistica e dei macchinari italiano a tre, quattro mesi. Zona elezioni europee. Quindi, sostegni garantiti. Almeno a parole. Poi arriverà il turismo estivo a dopare il Pil, come al solito. Ma a settembre, something’s gotta give?
Mi ritenere ansiogeno? Forse. Ma la stessa Maersk ha ritenuto credibile come scusa quella del container glut Later. Calcione al barattolo. Sapendo però che il muro contro cui poi ci rimbalzerà in piena faccia ormai è lì. Davanti a noi. Mentre Xi Jinping telefona a Vladimir Putin. E auspica maggior coordinamento strategico per la multipolarità. Da subito. Chissà cosa ne penserà John Travolta? E cosa penserà del grafico che circola insistentemente in Rete e che compara il corso del Nasdaq con la sua ampiezza di mercato, il breadth. Ovvero, il numero totale di azioni di un indice che stanno aumentando di prezzo rispetto al numero di azioni che stanno invece subendo un calo. Di fatto, un implicito termometro per prendere la febbre al leverage e all’eccesso di espansione dei multipli.
Oggi quel de-couple è ai massimi. E non è una buona notizia. Non fosse altro perché un simile spread è stato raggiunto solo in un’altra occasione: l’8 agosto 1929. In realtà, a me impressiona più quest’altro grafico, che fa riferimento al report di JP Morgan sul Concentration Risk legato ai 5 titoli leader di Wall Street. E al suo rapido approccio a livelli della prima botto tech, quello del 1999-2000.
La ragione? Che il Nasdaq sia una bolla è noto a tutti. Non da oggi. Ma con la patata bollente del commercial real estate che ha già necessitato un dèjà vu della crisi bancaria per generare i prodromi di un dietrofront sul fondo salva-banche (Btfp), dubito che un’America in anno elettorale abbia voglia di giocare al lancio del cerino acceso nei pressi di una pompa di benzina. Certo, qualcosa va fatto. Occorre purgare gli eccessi. Affinché la bolla si sgonfi senza esplodere.
Ora date un’occhiata a quest’altro grafico. Quello mi inquieta davvero. E molto.
Sono i 5 titoli che, di fatto, rappresentano la versione europea del Concentration Risk statunitense. A parte il lusso di Lvmh, 3 su 5 sono tech. I chip di Asml, le soluzioni informatiche di Sap e la tecnologia per mobilità e servizi di Siemens. Oltre al coté energetico di TotalEnergies. Solo Asml e Lvmh hanno generato quasi il 27% di return sull’indice benchmark. E giova ricordare come la stella europea dei chip sia entrata a far parte dell’Euro Stoxx 50 soltanto nel 2012. E che nel 2009 vantasse un valore di mercato di 6 miliardi. Oggi di circa 320. E cosa accadde nel 2000, tanto per restare in tema di dèjà vu della bolla tech? I titoli della telefonia, Nokia in testa, pesavano per circa il 28% dell’indice. Quando saltò il tappo, bancari ed energetici corsero in sostegno. A partire da allora, diversificazione: nessun titolo eccedeva il 6% del totale. E oggi? Qual è il problema?
Duplice. Primo, il tech europeo, piaccia o meno, sconta un range non trascurabile di esposizione ciclica al mercato cinese. Tradotto, titoli europei come proxies di quelli del Dragone, la cui detenzione diretta appare troppo rischiosa, in primis a livello di sanzioni. Non fosse altro in caso di vittoria di Donald Trump, a oggi più che probabile. Secondo, proprio in tal senso e con lo spauracchio Taiwan sempre a portata di mano, Washington potrebbe essere terribilmente tentata dall’ipotesi di un effetto Lehman 2.0. Ovvero, mettere a posto i guai interni esternalizzandone le conseguenze dirette e indirette più nefaste. All’epoca fu l’esposizione finanziaria al colosso caduto in disgrazia, oggi l’ipertrofia tech dell’azionario e il suo legame con la Cina. Sgonfiare il Nasdaq, utilizzando lo Stoxx 50 e la sua concentrazione di rischio tech. Fra Washington, New York e la California, qualcuno ci avrò fatto un pensierino?
Avete visto i conti di Softbank, pubblicati giovedì mattina e in grado di far esplodere il titolo in Borsa? Senza il tech ad alta concentrazione di AI della controllata Arm, il re nipponico dello schema Ponzi oggi sarebbe nudo. E insolvente sotto un tsunami di margin calls.
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