E se per dare una spiegazione a quanto sta accadendo fra Russia e Ucraina bisognasse guardare in America? Nel cuore profondo dell’America del potere, quel Deep State per anni bistrattato come entità da mera ricostruzione dietrologica ma che in realtà si sostanzia unicamente come insieme dei corpi intermedi dello Stato, agenzie di intelligence e federali in testa. La trepidante attesa del SuperBowl di Los Angeles, infatti, domenica è stata accompagnata da due notizie che hanno squassato la politica a stelle e strisce.



Primo, 37 deputati Repubblicani del Congresso capeggiati dal rappresentante del Texas, Ronny Jackson, hanno infatti firmato una lettera nella quale esprimono viva preoccupazione per la salute mentale del Presidente e chiedono che lo stesso si sottoponga al più presto a un test cognitivo, come al tempo fece anche Donald Trump. Non un’accusa da poco per l’uomo più potente del mondo, non fosse altro perché detiene i codici delle valigette nucleari. E soprattutto perché la questione non appare affatto campata in aria. Da mesi si susseguono infatti gli episodi pubblici in cui il Commander-in-chief appare assente, incapace di argomentare o addirittura di trovare le parole per esprimersi. Un handicap latente che non è sfuggito all’opinione pubblica, come mostra questa grafica relativa al sondaggio compiuto non più tardi dello scorso novembre dalla prestigiosa testata Politico in collaborazione con Morning Consult e dal quale si evince come il 48% degli americani sia preoccupato per la salute mentale dell’inquilino della Casa Bianca contro il 46% che invece lo ritiene in uno stato di efficienza. Al netto del gap a sfavore dell’equilibrio psicologico del Presidente, ad aggravare il quadro il fatto che solo il mese precedente il vantaggio di chi riteneva Joe Biden fit to lead era di 21 punti. Un tracollo.



Secondo fatto, il Consigliere Speciale, John Durham, ha rivelato nel corso di un processo che la campagna elettorale di Hillary Clinton complottò per infiltrare quella di Donald Trump attraverso servers della Casa Bianca al fine di fabbricare false accuse di collusioni con i russi. Nemmeno a dirlo, l’ex Presidente ha tuonato via Twitter, parlando di scandalo maggiore del Watergate, ma a rendere la questione tanto delicata quanto attuale c’è il fatto che al centro del caso Alfa Bank, di cui si sta discutendo in tribunale e su cui Durham ha lanciato la sua granata, ci sia un ex consigliere e poi funzionario della campagna elettorale di Hillary Clinton, Jake Sullivan. Il quale, casualmente, oggi è nientemeno che Consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden. Di fatto, l’uomo incaricato anche di gestire l’affaire Ucraina. Sgradevole coincidenza temporale. E una connection di interessi incrociati e inconfessabili che fa riflettere. Quantomeno, alla luce degli ultimi accadimenti diplomatici.



Perché sempre ieri, in quello che è apparso un momento degno del teatro dell’assurdo di Ionesco, il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha chiesto ufficialmente all’intelligence Usa prove concrete del loro allarme rispetto a un’imminente invasione russa, indicata addirittura con la datazione precisa del 16 febbraio. A Kiev, infatti, domenica regnava la calma assoluta. Tanto che il Presidente ucraino avrebbe deciso per l’inusuale passo proprio per il panico che le continue dichiarazioni Usa stavano instillando nella popolazione, apparentemente senza un motivo reale incombente. Casualmente, però, dopo un’ora di telefonata con Joe Biden, il numero uno ucraino pare aver cambiato un pochino approccio, facendo emanare un appello alle linee aeree internazionali al fine di evitare il sorvolo civile sopra il Mar Nero fino a venerdì, giorno in cui si concluderanno le esercitazioni navali russe. Cosa si saranno detti i due? Biden avrà fornito prove di intelligence al suo omologo, tali da suscitare in lui il seme del dubbio e del timore?

Una cosa è certa: appare altamente improbabile la casualità rispetto alla messe di criticità esplose in sole 24 ore attorno alla presidenza Biden, una delle quali in strettissima connessione con quello che all’epoca che fu chiamato Russiagate e portò addirittura alla procedura di impeachment di Donald Trump. Ed ecco che una teoria alternativa prende corpo. E se in realtà non fosse Mosca, bensì Washington ad avere tutto l’interesse a destabilizzare l’Ucraina, al fine di evitare che il segreto inconfessabile che giace sepolto a Kiev venga alla luce? Ovvero, il cosiddetto Ucraina-gate. Cioè le connessioni fra Joe Biden e il regime di Poroshenko prima e Zelensky poi, al centro delle quali figurava l’assunzione del figlio del Presidente, Hunter, nel cda del colosso del gas ucraino, Burisma, nel 2014, subito dopo il golpe di Piazza Maidan.

Nella fattispecie, tutto ciò che ruota attorno alla figura di Victor Shokin, quel Procuratore capo che stava proprio investigando sulla corruzione e la malversazione di fondi nel gigante statale. Il quale, per quanto sconosciuto, rappresenta infatti una figura esiziale della recente storia americana. Perché da un lato è l’uomo che, a detta dei Democratici, incarnava la prova concreta del tentativo di Donald Trump di sabotare le elezioni del 2020, avendo il Presidente fatto pressioni su Kiev perché investigasse sempre più a fondo al fine di screditare il competitor. Nemmeno a dirlo, la base dell’impeachment. Dall’altro lato, invece, Victor Shokin rappresenta una sorta di Antonio Di Pietro ucraino, il quale – lungi dall’essere corrotto o al soldo dell’Amministrazione Trump – stava investigando seriamente e senza doppi fini. E proprio per questo nel 2016 divenne argomento di conversazione a quattr’occhi fra l’allora Presidente ucraino, Viktor Poroshenko e proprio Joe Biden, all’epoca inviato dell’uscente Amministrazione Obama per l’Ucraina.

Il contenuto di quella conversazione è noto, tanto che lo stesso Presidente Usa lo confermò nel corso di un incontro al Council on Foreign Relations. Vi evito di perdere quasi un’ora di tempo: la parte interessante inizia al minuto 51:58, quando potrete godervi le capriole carpiate con cui l’inquilino della Casa Bianca vende alla platea la teoria del qui pro quo. Insomma, se Kiev voleva il rinnovo del prestito da un miliardo di dollari approvato da Washington, doveva silurare il troppo zelante Procuratore capo. Detto fatto, Poroshenko acconsentì. Da lì, l’inizio della procedura di impeachment e tutto ciò che ne conseguì, fino al voto del novembre 2020.

E cosa c’entra tutto questo con lo stand-off in atto in Crimea? Primo, recenti memos del Dipartimento di Stato hanno dimostrato come sei mesi prima del siluramento di Victor Shokin, l’amministrazione Usa si definisse impressionata dall’ambizioso programma anti-corruzione di Kiev e portato avanti proprio dal Procuratore capo. Di colpo, divenuto invece un corrotto da far rimuovere. Il problema è che quanto accaduto è noto a molti in Ucraina. Moltissimi. Ma soprattutto al Presidente Zelensky, il quale – fanno sapere i bene informati – avendo perso nel 2014 la Russia come partner commerciale, ora necessita di un appoggio economico permanente. Ma, conscio che l’Ue non aprirà mai le porte a Kiev, ha optato per la sponda Usa. La quale, a sua volta, però ha fallito nel garantire all’Ucraina la priorità assoluta: il boicottaggio di Nord Stream 2, poiché quel gasdotto farà perdere miliardi di diritti di transito alle casse statali di Kiev, bypassandone il territorio.

Ed ecco che Zelensky si sarebbe fatto leone e avrebbe minacciato gli Usa, nella fattispecie il loro Presidente, ventilando la possibilità che i retroscena dell’affaire Shokin possano venire a galla. Praticamente, la fine dell’Amministrazione Biden, un altro Watergate e la clamorosa riabilitazione pubblica della figura politica di Donald Trump. Inaccettabile. Al punto da mettere in campo la duplice ipotesi. Da un lato, forzare la mano con la Germania, affinché invii segnali sempre più chiari di messa in discussione dell’infrastruttura. Non a caso, oggi Olaf Scholz sarà a Mosca, ma, soprattutto, il neo-rieletto Presidente Frank-Walter Steinmeier nel corso del suo discorso di insediamento di domenica ha dato vita a un irrituale attacco contro Mosca, chiedendo che la Russia allenti il proprio cappio attorno all’Ucraina, al fine di evitare sanzioni senza precedenti. Dall’altro, forzare la mano a tal punto con l’isteria bellica da creare le condizioni per uno scontro fra Mosca e Kiev, utilizzando quasi certamente come detonatore la regione ribelle del Donbass. E magari una false flag. A quel punto, le priorità di Kiev sarebbero state ben altre rispetto a Nord Stream 2 e alla volontà di scoperchiare il vaso di Pandora della connection dei Biden con l’Ucraina.

Inoltre, la classica mossa che garantisce di prendere due piccioni con una fava: isolare la Russia dal mondo e soprattutto dall’Ue, scaricandole addosso le responsabilità di un’invasione e spingendola giocoforza nelle braccia della Cina. La polarizzazione da neo-Guerra fredda che piace al Pentagono e a larga parte del Deep State.

Una cosa è certa, in questo vortice di ipotesi. Un conflitto è già scoppiato. Ma in seno al corpaccione del potere in America, quasi la guerra civile scatenatasi il 6 gennaio a Capitol Hill stesse attendendo da tempo l’arrivo del suo secondo tempo. La resa dei conti. Il Deep State è alacremente al lavoro. Joe Biden sempre più pericolosamente ostaggio.

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