A volte la questione dirimente da porsi non è quella fra la solitudine o una mala compagnia, bensì quella relativa alla magnitudo del fronte contrapposto al nostro. E alla sua composizione. Perché al netto di uno scontro con la Francia che non pare assolutamente destinato a una composizione diplomatica di breve termine o limitate conseguenze, ecco che Roma pare aver sentito il bisogno di aggravare ulteriormente il proprio isolamento in Europa. Paradossalmente, nel tentativo invece di cercare alleati e compattarsi. Sintomo che all’opera ci sono dilettanti assoluti. E politicamente pericolosi.
Perché se poter vantare compagni di strada come Grecia, Malta e Cipro nello scontro in sede europea equivale ad accaparrarsi Tatarusanu al Fantacalcio, il vero dato inquietante è il no della Spagna alla posizione comune assunta dai Paesi mediterranei nella disputa relativa a migranti e Ong. E al netto del silente Portogallo, di fatto appendice di Madrid per una sacrosanta questione di solidarietà e cluster di interesse iberico, quanto accaduto sancisce un varco del Rubicone totale. Perché anche chi millantava solidarietà tedesca verso l’Italia, stante la freddezza con cui Berlino aveva apparentemente reagito allo strappo francese rispetto agli accordi sui ricollocamenti, ecco che proprio il Governo Scholz spariglia le carte in senso opposto. E annuncia il finanziamento fino al 2026 con 2 milioni di euro l’anno a United4Rescue. Praticamente, uno schiaffo in pieno viso alla linea Meloni-Salvini-Piantedosi. Con un Antonio Tajani sempre più a disagio.
E in tal senso, attenzione alla visita di cortesia alla Farnesina compiuta venerdì scorso da Manfred Weber, gran cerimoniere del Ppe. E in questo caso, più che probabilmente, pontiere di una ricucitura che la creazione del fronte mediterraneo anti-Ong ha tramutato in un ampliamento dello sbrego. Insomma, Madrid ha scelto. Ma non noi. E la Spagna era alleata di primo livello. Sia in sede di discussione sulla riforma del Patto di stabilità, stante la medesima dipendenza da Bce del Bonos rispetto al Btp, sia per quanto riguarda appunta la massa critica del fronte periferico nel confronto con l’asse rigorista del Nord. E chi ha sempre giocato un ruolo di trait d’union in tal senso, potendo vantare un’estensione geografica che va dalla Costa Azzurra alla Bretagna? La Francia. Praticamente, una situazione che potrebbe essere utilizzata per la definizione di isolamento nel dizionario della geopolitica.
Ma, paradossalmente, all’orizzonte c’è di peggio. E di potenzialmente davvero rischioso. Domani si apre infatti a Bali un G-20 che, a differenza dei suoi predecessori, potrebbe davvero segnare una tappa spartiacque nei nuovi equilibri globali. Non fosse altro per il carico di aspettative che offre l’incontro fra un Joe Biden rinfrancato dallo scampato pericoloso alle elezioni di midterm e uno Xi Jinping in modalità Mao 2.0 dopo il Congresso del Pcc. Non a caso, la Russia ha deciso il ritiro da Kherson proprio ora. Tempismo da trattativa perfetto. Ma, in tal senso, attenzione al gioco delle parti insito nelle dichiarazioni di Medvedev e Dugin: se al G-20 non ci sarà reale e fattiva svolta diplomatica, Mosca passerà al contrattacco pesante. E, forse, estremo. Insomma, last resort. In questo contesto da libri di storia, Giorgia Meloni farà il suo vero esordio internazionale, il battesimo del fuoco nei consessi che contano. E incontrerà Joe Biden, faccia a faccia a cui la presidente del Consiglio tiene ovviamente in modo particolare. E che infatti ha voluto preparare debitamente, facendolo anticipare dall’incontro con Jens Stoltenberg, di fatto una dichiarazione d’amore alla Nato quasi strappalacrime.
Inquieta l’agenda del bilaterale, quantomeno quella ufficialmente filtrata da ambienti diplomatici: Ucraina e Cina. Al netto dell’ovvio suicidio che il nostro Paese compirà con il prossimo decreto relativo alle armi pesanti da fornire all’Ucraina, quasi certamente già scritto altrove e pronto per la firma del ministro della Difesa, occorre prendere atto che la falsariga sui cui si discuterà invece di pericolo rosso parte dal briefing che Janet Yellen, numero uno del Tesoro Usa, ha compiuto nel fine settimana. E totalmente incentrato su politica cinese relativa alle restrizioni anti-Covid e reale situazione della bolla immobiliare del Dragone. Insomma, gli Stati Uniti vogliono capire quale sarà l’apporto macro-economico reale della Cina all’uscita-lampo dalla recessione alle porte. E, soprattutto, lo spazio di manovra creditizia per la Pboc.
L’Italia, si sa, ha un approccio verso la Cina simile a quello di un tifoso milanista verso Hakan Çalhanoğlu. Il giorno del derby, oltretutto. C’è un problema, però, sta tutto in questo grafico creato da Statista su dati di Pioneer, quindi difficilmente tacciabile di propaganda comunista e relativo allo sviluppo dei rapporti commerciali bilaterali del mondo rispetto a Usa e Cina.
Può l’Italia inimicarsi e chiudere del tutto le porte a Pechino, quando la crisi energetica sta già facendo strage di aziende, la Germania ha spalancato le porte della sua industria al Dragone e, soprattutto, fino a non più tardi del 2018 il nostro Paese aveva firmato un memorandum d’intesa che era di fatto un prodromo di adesione alla Nuova Via della Seta? Apparentemente, sì. E la nomina di un sinofobo di prima categoria come Adolfo Urso allo Sviluppo economico lo testimonia, poiché conferire un ministero-chiave come quello all’ex Presidente del Copasir significa guardare agli equilibri geopolitici-sicuritari e non economici. E, soprattutto, in questo caso farlo con strabismo ideologico.
Può la nostra economia reale tagliare fuori la Cina, proprio nel momento in cui l’Algeria fa richiesta ufficiale di adesione ai Brics e la lista dei nuovi candidati contempla Arabia Saudita, Argentina, Iran ed Egitto? E anche chi agita spettri di colonizzazione commerciale cinese come cavallo di Troia verso un assalto alla sicurezza interna occidentale dovrà ammettere che non più tardi della scorsa settimana, la stessa Germania che ha ceduta il 30% dell’hub portuale di Amburgo alla cinese Cosco Shipping, ha risposto picche alla proposta di takeover di due aziende di semiconduttori da parte di players del Dragone. Opponendo proprio ragioni di sicurezza interna e sistemica. Certo, occorre cautela. Occorre buon senso. Occorre soprattutto rinchiudere a tempo di record gli elefanti nel recinto dell’ordine pubblico e lasciare la diplomazia a chi è in grado di muoversi nella cristalleria dei rapporti di forza senza distruggere tutto. Perché pensare a un mondo senza Cina è folle. Ma ritenere perseguibile la strada dello scontro aperto con Pechino è suicida. Soprattutto quando, alla prima prova dei fatti, i tuoi unici alleati si sono rivelati Grecia, Malta e Cipro. Ovvero, Paesi che rispetto agli investimenti cinesi (vedi i porti del Pireo), ai richiami per riciclaggio (La Valletta docet) e all’accoglienza di capitali russi (Gazprombank terza banca di Nicosia), certamente non sono secondi a nessuno. Più dolosamente incoerenti o semplicemente incapaci?
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