Vivere tempi estremi e pericolosi come questi significa paradossalmente e giocoforza dover cambiare le proprie priorità. E percezioni, persino. Pena il venire risucchiati in una dissonanza cognitiva di massa. Prendiamo la stretta cronaca. Normalmente, di fronte a un’emergenza come quella del coronavirus emerso in Cina e rapidamente diffusosi ai quattro angoli del pianeta, uno si preoccuperebbe di una sola cosa: il rischio contagio. Di fatto, la propria sopravvivenza e quella dei propri cari di fronte all’epidemia. Sapete invece di cosa occorre avere paura? Non del virus in sé, ma del perché sia emerso proprio ora.



E poco mi importa sapere se a generarlo è stata davvero la zuppa di pipistrello o il serpente detenuto illegalmente al mercato del pesce di Wuhan oppure ancora una “fuga” dal laboratorio che studia agenti patogeni presente nel campus universitario di quella stessa città, a forte nomea di elaborazione segreta di cosiddetti weaponzied virus per la guerra batteriologica. Il problema è insito in ciò che vi dico da mesi e mesi, instancabilmente e pervicacemente: il sistema è talmente ormai affogato dal debito e dipendente dalle Banche centrali che ha un unico modo per sopravvivere. Ovvero, sanarsi di emergenza in emergenza, sperando che nel frattempo – grazie al proverbiale calcione al barattolo – qualcosa magicamente sblocchi la situazione.



Prima l’Isis, poi la guerra commerciale con la Cina, poi l’impeachment, poi la crisi Usa-Iran e adesso il grande terrore della “nuova peste”. La quale, non a caso, in tempi rapidissimi tipici di un mondo totalmente interconnesso e finanziarizzato, ha già presentato il preventivo dei suoi costi economici: turismo e traffico aereo crollati e con essi, ovviamente, il prezzo del petrolio. Oro sugli scudi, così come tutti i beni rifugio: pensate che il calo del nostro spread di ieri sia unicamente figlio della vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna? Le banche d’affari hanno già fatto i calcoli: un calo dei consumi del 10% si sostanzierebbe in un crollo dell’1,5% del Pil cinese nel primo trimestre. Lo stesso Xi Jinping ha messo le mani avanti al riguardo. E cosa dite, di fronte a un’emergenza simile, alle città fantasma, ai cittadini con le mascherine, alle frontiere sigillate, agli ospedali che scoppiano, al ricordo della Sars, volete che la Banca centrale cinese resti con le mani in mano, evitando di supportare direttamente l’economia a rischio di contrazione ulteriore e panico da stagnazione?



Oltretutto, di fronte a una crisi globale simile, nessuno farà notare a Xi Jinping e soci il rimangiarsi della propria promessa politica di ridimensionamento della bolla creditizia: nessuno, Usa in testa. E poi, cosa dite che farà la Fed? La quale, proprio oggi inizia la due giorni del suo primo Fomc del 2020 e domani sera vedrà Jerome Powell comunicare al mondo le sue decisioni. Seguirà le indicazioni di massima che vedono le aste term e repo destinate a un gradualmente ridimensionamento già da febbraio, fino ad esaurirsi o – facendo ricorso alla sempre efficace formula delle “contingenze esterne” e dello “shock esogeno” – lascerà che il treno della liquidità corra al massimo della forza lungo i binari impostati lo scorso 17 settembre?

Guardate questo grafico, ci mostra il trend delle ricerche su Google relative a “mascherine anti-virus” prima dell’inizio delle festività per il Capodanno cinese, quando l’emergenza era ben più contenuta di quanto non sia ora. La psicosi è già innescata, l’effetto psicologico è già attivo: nessuno si chiede come sia arrivato quel virus, fosse anche per le attività da dottor Stranamore batteriologico del regime di Pechino. Vuole solo che la scienza trovi la soluzione, il vaccino, l’antidoto, il siero, la pozione magiche di Panoramix il Druido. Le banche centrali potranno fare qualsiasi cosa. E nessuno avrà da ridire.

E lo stesso vale per i governi: cosa vi avevo detto, rispetto alle proteste a Hong Kong? Ridimensionate praticamente a zero senza colpo ferire, senza bisogno di polizia o legge marziale: è bastata l’emergenza sanitaria e le strade sono tornate calme, fino a diventare deserte. Basta molotov e basta passamontagna: al loro posto, mascherine protettive. E paura. Problema risolto, quantomeno per ora. Lo stesso vale per il rischio che andasse fuori controllo il mercato obbligazionario on-shore denominato in dollari con le sue scadenze da oltre 200 miliardi da qui a fine febbraio: nessuno permetterà default aziendali, vista la situazione. Non a caso, poi, le autorità del bacino produttivo principale del Paese, l’hub manifatturiero di Suzhou, hanno deciso preventivamente che tutte le attività resteranno chiuse a livello precauzionale almeno fino all’8 febbraio. Insomma, il Pil al 6% nel primo trimestre è matematicamente impossibile. Lo sanno tutti, fin da ora. Colpa del coronavirus, dei pipistrelli o dei serpenti. E se per caso quel calo fosse stato strutturale e sistemico, ovvero frutto di un rallentamento che nella realtà si sostanzia già come chiara e netta contrazione da calo della domanda e assenza di impulso creditizio, ecco che nessuno si porrà nemmeno in questo caso troppe domande, a livello macro: la colpa è delle fabbriche chiuse e dei trasporti praticamente azzerati. la colpa è del virus, l’untore silenzioso.

La Cina è ferma, la fabbrica mondiale di crescita si è arrestata causa pandemia: nella speranza che già da qui al secondo trimestre, lo stimolo monetario che verrà messo in pista possa ribaltare la situazione e dare vita ai proverbiali green shots, i germogli di ripresa. Speriamo, ma, torno a chiedervi, si può vivere così, di emergenza in emergenza, già nel medio termine? E se sì, per quanto? Quasi certamente, fino al 3 novembre. Ve l’ho detto da tempo, l’anno delle presidenziali negli Stati Uniti impone una campagna elettorale globale, come accade sempre agli Imperi. E la Cina è ben felice. Perché, ad esempio, questo clima di generale entropia consentirà di mettere mano al grande problema del comparto auto, visto che la China Passenger Car Association proprio in questi giorni ha reso noto i dati relativi all’intero 2019: -7,5% di vendite su base annua e 18 mesi di calo sugli ultimi 19. Di più, l’auto elettrica, quella che doveva essere l’El Dorado produttivo e di vendita, la nuova frontiere del comparto, lo scorso mese di dicembre ha visto calare gli acquisti del 42%, sesto mese di fila di contrazione, come mostra il grafico.

Insomma, la Cina era ferma, in stallo, ben prima della crisi del virus. Il quale, in realtà, finora non ha ancora mostrato la sua faccia reale. Certo, da Wuhan oggi non si può più uscire, l’intera provincia è in quarantena. Ma, come testimoniava l’Associated France Press nel weekend, prima del blocco operato dalle autorità mercoledì scorso, sono stati 5 milioni gli abitanti a essersi allontanati. Quindi, se quanto ci dicono è vero, 5 milioni di potenziali vettori di contagio sono già sparsi per la Cina. E, forse, per il mondo. Un bel problema, se davvero le cose stanno come ci dicono. Ovvero, che i morti sarebbero un’ottantina e i contagiati oltre 3mila, tanto che le autorità hanno prolungato le vacanze per il nuovo anno fino al 2 febbraio, al fine di evitare ritorni al lavoro di massa. Basterà per evitare la pandemia? Chissà.

Resta un fatto, una crisi simile con il suo carico di criticità e simbolismo, non poteva arrivare in un momento migliore. Altro tempo per fermare il conto alla rovescia e, paradossalmente, un buon veicolo per garantire ai mercati una salutare purga dopo l’eccesso di rialzi da buybacks e liquidità con il badile da parte della Fed Stop-and-go, avanti con cautela. Il mondo sta procedendo su un campo minato, quindi meglio abituarsi alle pause sempre più frequenti, quando il terreno appare accidentato e una semplice zolla può far pensare a un ordigno. La cosa paradossalmente ironica è che siamo stati noi, dal 2009 in poi, a disseminare mine anti-uomo lungo il nostro percorso, spacciandole per ripresa e stimolo. Ora, il conto è arrivato al tavolo. E per quanto ci si possa sbizzarrire in rituali e riffe per decidere chi pagherà, dubito che il cameriere abbandonerà ancora la sua posizione di attesa, permettendo a tutti la fuga in avanti vissuta nel biennio 2011-2012 grazie al Qe globale. Stavolta, qualcuno dovrà soffrire, mettendo mano al portafoglio.

Nemmeno a dirlo, gli indizi – finora – puntano tutti nella stessa direzione. La nostra, quelli degli adoratori dell’orso polare accaldato che non capiscono quanto velocemente la sabbia stia scendendo nella clessidra.