Facendo il mio lavoro, a volte ci si imbatte in vere e proprie perle per puro caso. Cominci una ricerca su un argomento, immetti le parole chiave, spulci i risultati ottenuti e – senza volerlo – trovi una una risposta alle tue domande. O, quantomeno, un senso al dedalo in cui sei certo di essere terminato, una sorta di indicazione di massima per uscire dal labirinto e non fare la fine di Jack Nicholson in Shining. Bene, a me è capitato ieri. La perla in questione è questa, riprodotta qui. Nonostante sia stata scritta il 18 luglio del 2013, è di un’attualità spiazzante, assoluta.



Per chi non sa l’inglese, la traduco: “La Fed che sta pompando è una grande notizia nel breve termine non può durare per sempre. Siate prudenti nei vostri investimenti”. Lo scriveva un Donald Trump che all’epoca era soltanto un imprenditore di successo, probabilmente lontano anni luce anche solo dall’idea di candidarsi davvero alla Casa Bianca. Eppure, signori, quelle poche parole rappresentano una profezia, prima ancora che una sorta di nemesi. Perché per quanto la carriera del tycoon newyorchese sia molto chiacchierata e costellata di guai e fallimenti, al di là della coltre mediatica della Trump Tower e del reality show in cui licenziava tutti, all’epoca parlava in punta di realismo da uomo di business. Da investitore, da persona che tratta con clienti, soci, banche, fondi, finanziatori. Insomma, uno che sa come gira la ruota del sistema, perché ne fa parte. Ma, soprattutto, da uomo che rischiava in proprio. Magari non del tutto, magari “ricattando” le banche grazie alla sua nomea che gli offriva una rendita di posizione per ottenere linee di credito. Ma, alla fine, se sbagliava di grosso, una parte del conto la pagava direttamente sotto forma di perdita. E cosa diceva: attenti a festeggiare troppo la stamperia della Fed, perché non può durare per sempre. Già.



Ora, guardate qui. Si tratta del medesimo Donald Trump, questa volta twittando da Pennsylvania Avenue però.

È di martedì scorso, l’altro ieri e invitava la Fed a tagliare ancora i tassi e far partire ancora il Qe, al fine di far accelerare a razzo l’export statunitense, grazie a un dollaro non più sopravvalutato sulle altre valute concorrenti. Bene, questi due grafici parlano altrettanto chiaro di quanto non faccia la profezia del 2013, ci dicono come stanno le cose. Perché non solo oggi il dollaro è ai minimi da cinque mesi sulle valute concorrenti, non ultimo grazie al tanto strombazzato accordo con la Cina, ma, soprattutto, persino Morgan Stanley ha dovuto cedere all’evidenza e ammettere, grafico alla mano, che la Fed non solo è l’unica artefice degli ultimi tre mesi di rally, ma che sta già stampando e acquistando come non faceva dai tempi della grande crisi finanziaria. Ai massimi.



Insomma, o Donald Trump è ignaro di quanto accade nel suo Paese, sui suoi mercati oppure mente, sapendo di mentire. Non so cosa sia peggio, trattandosi dell’uomo più potente del mondo. Perché nel suo tweet di martedì non ha sentito il bisogno di mettere in guardia gli investitori, dicendo loro di essere prudenti? Perché non ha sentito il bisogno, dopo aver operato il suo periodico atto di stalking presidenziale nei confronti di Jerome Powell, non ha però ricordato a tutti – anche a se stesso, forse per primo – che l’operatività straordinaria della Banca centrale non può durare per sempre, proprio perché tale? Per una ragione semplice: perché se quel concetto poteva essere vero nel 2013, non lo è più nel 2019. Il Qe, come il diamante della famosa pubblicità, ormai è per sempre. Perché altrimenti, l’intero castello viene giù.

E la ragione più seria e strutturale, al netto dei corsi dei mercati finanziari da tenere in alto, sta in quanto vi ho raccontato nel mio articolo di martedì: attraverso il Qe, nel 2020 la Fed acquisterà circa il 40% del debito emesso dal Tesoro Usa. Insomma, finanzierà il deficit, monetizzando il debito. La formula magica degli irresponsabili, la pietra filosofale della rovina. Ma non basta. Perché sempre martedì, qualche ora dopo il tweet in cui Donald Trump invitava la Fed a entrare in modalità forza quattro, il Senato Usa dava luce verde a un piano di spesa per la difesa da 738 miliardi di dollari, non a caso immediatamente ribattezzato the mammoth dalla stampa statunitense. Il tutto in seno a un più ampio programma di spesa pubblica da 1,4 triliardi di dollari: insomma, deficit come se piovesse. E warfare ai massimi livelli, più della metà dello stanziamento totale, per la gioia del Pentagono e del complesso bellico-industriale. Il quale, ovviamente, saprà sdebitarsi prima con generose donazioni durante la campagna elettorale e poi con sostegno diretto il prossimo novembre, quando l’America sarà chiamata a scegliere il suo Commander-in-chief.

Tanto, il problema è risolto: ci pensa la Fed a finanziare tutta la spesa in deficit. E se si decide di aumentarlo ancora, visto che si entra nell’anno delle presidenziali e le mancette elettorali costano, basta che il Tesoro aumenti le emissioni: gli stranieri non comprano più Treasuries? Ci pensano la Federal Reserve, debitamente riportata in attività ai massimi livelli, e i Fondi pensione interni, ovvero il parco buoi che patriotticamente si ritrova a detenere carta che sarebbe eccessivo anche definire “da parati”, ma che, stante la pochezza del mondo, ricopre ancora un ruolo di benchmark. Per questo motivo, signori, che il Qe può durare per sempre. Anzi, deve durare per sempre.

E come si fa, visto che si tratta di misure formalmente emergenziali e straordinarie rispetto al mandato statutario di una Banca centrale, fosse anche la Fed? Semplice, creando ad hoc un’emergenza dopo l’altra. Prima l’Isis e la “guerra al terrore”, poi il conflitto commerciale con la Cina, poi la concorrenza sleale dell’euro indebolito dal Whatever it takes di Mario Draghi. Ma vale per tutti, mica solo per gli Usa. Come intendono fare, infatti, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde per rivitalizzare quel tricheco spiaggiato in stagnazione chiamato Unione europea? Utilizzare come scusa per stampare e spendere senza costrutto quel passe-partout ideologico del tempi moderni che risponde al nome di emergenza climatica, dando vita a una non meglio precisata (e precisabile) agenda di azione green per l’Europa. Non importa che il vertice europeo abbia già visto la Polonia mettersi di traverso e la stessa COP25 di Madrid si sia chiusa con un fallimento su tutta la linea, tanto da spingere la povera Greta Thunberg a invocare un po’ di riposo.

Qui il problema non sono gli orsi che hanno caldo o i ghiacciai che sembrano dei Calippo lasciati al sole, il problema è creare le condizioni per competere contro chi ha trovato il modo di finanziare all’infinito il proprio deficit, tradendo in maniera vergognosa le future generazioni che dovranno pagarne il conto. Le stesse, fra l’altro, che nell’America dell’economia formalmente da record, già devono vedersela con spese per andare al college che li inseguiranno a colpi di rate e interessi fino all’età della pensione. È tutto un gioco di specchi, cambiano le parole d’ordine, ma, dal 2009 in poi, il mondo ha capito che esiste una via più semplice alla responsabilità, al merito, alla serietà nella gestione della cosa pubblica e dell’investimento privato: basta che ci sia qualcuno pronto a stampare soldi dal nulla, quando questi finiscono. O, addirittura, quando cominciano anche solo a scarseggiare. Come una partita a Monopoli: se va male, ne facciamo un’altra. O, meglio ancora, mandiamo a monte e si ricomincia. Tanto, nessuno paga in realtà. Nessuno fallirà più nel new normal, ci sarà un paracadute (pubblico) per tutto e tutti: sia per chi è caduto in disgrazia per un caso, per sfortuna o contingenza, sia chi perché ha operato da furbo o con dolo. Tutti assolti. E quando la polvere sotto il tappeto del sistema comincia a creare le prime, imbarazzanti gobbe, arrivano la Fed o la Bce con il loro idrante. Non l’aspirapolvere, perché quello comporta del lavoro e della fatica. Bensì l’idrante, il quale sposta soltanto lo sporco in un angolo e lo fa sedimentare e marcire: ma, quantomeno, lontano dalla vista. E dal naso, almeno per un po’.

Quello sporco si chiama debito, se non lo aveste ancora capito. Ed è il vostro nuovo padrone, il vostro Dio laico che non accetta iconoclastie o bestemmie. La strada ormai è tracciata, tornare indietro equivarrebbe a spalancare le porte dell’Inferno. Tutti sono stati parte in commedia, tutti hanno recitato un ruolo. Se ve lo ricordate, lo scrissi l’8 novembre del 2016, quando Donald Trump divenne presidente Usa nello sconcerto pressoché generale (l’ottimo archivio di questo sito mi è testimone, cercare per credere): se è arrivato lì, è perché ha un ruolo da svolgere per conto terzi. Un ruolo che nessun altro, se non ritenuto un pazzo incontrollabile, potrebbe recitare: serviva un outsider figlio della rabbia popolare, della riscossa del 99% abbandonato e bastonato dalle élites dal crollo Lehman Brothers in poi. Ecco il risultato, plasticamente sempre più disvelato sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno.

Rifletteteci. Poi ripetetemi ancora che il sovranismo è un movimento spontaneo, popolare, democratico e non eterodiretto. Se ci riuscite, caffè pagato.