Fino alla serata di lunedì, le possibilità che Jerome Powell questa sera non tagli i tassi di interesse erano pari a zero. Ora – mentre scrivo – sono al 6%. Nulla, per carità. Ma sintomo chiaro di come i mercati siano sensibili anche alle ipotesi più improbabili: l’attacco alla raffineria Aramco in Arabia Saudita è stato forse il “cigno nero” da tanti temuto? Intendiamoci, nessuno pensi che quanto accaduto nel fine settimane possa influenzare a livello macro la Fed: se si è arrivati a bloccare il processo di normalizzazione monetaria, stoppando le redemptions e anzi tornando ad acquistare un paio di decine di miliardi di Treasuries durante il mese di agosto, è perché sotto il pelo dell’acqua c’è dell’altro. C’è l’iceberg grosso, certamente non il timore di una futura fiammata inflattiva legata a una crisi petrolifera, tra l’altro ancora tutta da decifrare.
E cosa c’è di così grande da aver innescato un voltafaccia globale a livello di politiche di stimolo, stante il ritorno alla stamperia della Bce e le arrampicate sugli specchi della Pboc cinese – durate tutta l’estate – per cercare di iniettare liquidità in forma travisata nel sistema? C’è quanto rappresentato nei grafici più in basso: ovvero che, a fronte di calcoli di Bank of America che da qui al luglio 2020 vedono la cosiddetta supernova di liquidità delle Banche centrali arrivare al record globale di assets in detenzione di 16,6 triliardi di dollari, già oggi gli strumenti finanziari negli Stati Uniti sono 5,6 volte il Pil.
Signori, è tutto qui. Non c’è altro da aggiungere e poco da dire in generale: un sistema simile campa soltanto con continue e costanti iniezioni di liquidità a costo zero. Altrimenti, grippa. E non siamo più all’interno di un regime di libero mercato dove i criteri di fair value e price discovery servono proprio a cercare di tenere “pulito” il sistema da elementi tossici (indebitati ed esposti strutturalmente a leva), bensì dentro un enorme Sert di tossicodipendenti in cerca di metadone.
Certo, c’è il tossico all’ultimo stadio o quello ancora redimibile, c’è quello che si fa di eroina da vent’anni e quello che è cascato da poco nel vortice della cocaina. Ma il problema è che tutti si rivolgono al medesimo spacciatore: prima era l’azzardo morale, oggi le Banche centrali. Possiamo metterla come vogliamo, indorare la pillola, posso pubblicare 50 grafici di dinamiche tecniche o mostravi la piantina dell’ultimo choke-point petrolifero del pianeta destinato a diventare l’ombelico geopolitico del mondo, ma la questione è solo finanziaria.
E attenzione, scacciate come la peste chi vi dice che è colpa del turbo-capitalismo o del liberismo selvaggio. Qui di capitalistico o liberistico non c’è niente: sono soldi del Monopoli creati da Banche centrali che si trasformano, sedimentandosi, in altrettante liabilities ingestibili per l’intero sistema. È la strategia dei novelli keynesiani, di qualsiasi ispirazione o latitudine: arrivare a un punto tale di dipendenza da avere un unico epilogo possibile, quello faustiano dell’helicopter money. Il Leviatano monetario, il sogno dei Bagnai e dei Borghi, le gioia suprema dei Casaleggio e dei Grillo, il Nirvana di chi non ha voglia di rischiare, né tantomeno di poter fallire, in nome della meritocrazia e della sacrosanta logica di domanda e offerta. Soldi a pioggia per tutti, paga lo Stato! E anche il debito pubblico non è più un problema, tanto c’è la Bce che compra e tiene artificialmente i costi per gli interessi in un range gestibile: e vai di spesa pubblica allegra, deficit, reddito di cittadinanza, salario minimo, quota 100 e chi più ne ha, più ne metta.
Siamo arrivati al paradosso di utilizzare la finanza come proprio alleato, pur maledicendola e additandola di ogni nefandezza in pubblico: l’alibi perfetto, per colpa dell’Europa della finanza e della banche, siamo tutti più poveri! Balle. Siamo più poveri perché non siamo competitivi, perché abbiamo una scuola che fa pena e una formazione lavoro inesistente, perché pensiamo che una start-up possa avere vita media di 10-15 anni, invece deve nascere e morire per essere sana, altrimenti non è ontologicamente una start-up ma una normalissima Srl! Forse, quindi, quel 6% di probabilità che il mercato offre a una Fed che resti ferma, si nutre proprio della convinzione che per lanciare un altro Qe che porti alle estreme conseguenze il monetarismo, Jerome Powell abbia bisogno di un’altra Lehman.
E attenzione, perché guardate che ce ne sono a decine là fuori, malati terminali di liquidità che sono vivi solo perché attaccati a un respiratore. Questo grafico ci mostra come sempre lunedì, sul mercato repo si sia passati dal 2,25% di tasso del venerdì precedente al 4,750%, un balzo di 250 punti base intraday. Con una puntata singola, rientrata quasi subito, al 7%. Significa che il sistema è al collasso, occorre liquidità con il badile e in tempi brevissimi.
E se Jerome Powell invece questa sera decidesse di fare il duro, trincerandosi dietro i dati macro che non sono ancora omogenei a tal punto da giustificare un nuovo intervento di stimolo, cosa accadrà già stanotte a quei tassi che regolano l’interscambio di sangue fra sistemi bancario e finanziario? Attenzione, perché negli Usa la metà di settembre è poi tipicamente caratterizzata da scadenze di massa sui coupon obbligazionari e dal pagamento della corporate tax, quindi le necessità di liquidità del sistema sono ancora più stressate. Sarà stata questa coincidenza temporale a portare il mercato a quel picco quantomeno anomalo sul repo rate? Forse sì, c’è da sperarlo quantomeno.
Ma non pensiate che, se anche così fosse, questo debba farci stare tranquilli. Ormai viviamo nell’emergenza permanente e strutturale: dopo il Qe globale in fieri che Bank of America già prezza attraverso la sua supernova di liquidità, ne servirà un altro fra due o tre o quattro anni. O, magari, fra sei-otto mesi soltanto. Sempre più grande, sempre più onnicomprensivo: scusate, dove vedete turbo-capitalismo o ultra-liberismo in tutta questa dinamica? Dov’è il rischio d’impresa tipico del libero mercato? Chi rischia più nulla, se tanto periodicamente arrivano le Banche centrali a saldare i conti? È questo che deve farvi paura, altro che la finanza e le banche. Le quali, certamente, hanno le loro enormi responsabilità in quanto accaduto dal 1999 in poi, ma occorre anche vedere l’altra faccia della Luna: essendo imprese private, come ci si può “difendere” da uno Stato che diviene sempre più controllore e decisore unico e garantire ai propri clienti dei profitti?
E vale per tutti, mica solo per i miliardari che si affidano agli hedge funds. Se il vostro piano di investimento o di pensione complementare/integrativa non offre un ritorno, ma, anzi, solo delle perdite, voi cosa fate? Restate lì a vedere i vostri risparmi andare in fumo? No. Quindi, spingete indirettamente chi opera sul mercato per vostro conto a prendere degli extra-rischi che vi garantiscano un return, in tempi in cui le Banche centrali comprimono ogni rendimento: et voilà, il disastro è completo, al netto dell’abuso di investment banking e strumenti esotici che andrebbe regolamentato seriamente, una volta per tutte.
Stasera, paradossalmente, Jerome Powell farà una scelta culturale e politica, prima che economica e monetaria: potrà accelerare la discesa verso l’inferno dell’helicopter money oppure prendere tempo, operando in punta di discrezionalità. Certo, dopo il taglio dei requisiti di riserva per le banche cinesi operato dalla Pboc e il nuovo Qe tout court della Bce, i margini per la Fed si sono ristretti molto. E, oltretutto, con l’aggravante di una campagna elettorale per le presidenziali 2020 che, già oggi, pare essere entrata in modalità all-in, con fortissimo anticipo. E non per la disputa fra Repubblicani e Democratici, di fatto inesistente, bensì fra Casa Bianca e Deep State.
Qualcuno cerca l’incidente controllato, quello risolutivo dopo tante prove generali e simulazioni? Difficile escluderlo. Altrettanto difficile, però, anticiparne le eventuali conseguenze. Dirette e immediate. Per tutti.