Fra poche settimane, il mondo ricorderà i 20 anni dagli attacchi dell’11 settembre. E come in un macabro e farsesco déjà vu lo farà con i talebani di fatto di nuovo al potere in Afghanistan. Già questo potrebbe e dovrebbe bastare a porre alcune domande. Scomode. Ma attenzione, perché a tutto c’è una spiegazione. E, soprattutto, esiste sempre una strategia precisa, un filo rosso invisibile che unisce decisioni e scelte apparentemente slegate fra loro. Ad esempio, il repentino ritiro dall’Afghanistan delle truppe Usa. Di fatto, l’atto informale di consegna della nazione ai risorgenti talebani. Strada spianata. E chissà grazie anche agli armamenti forniti da chi?
In compenso, gli Usa stanno concentrandosi sull’Iraq. Dove la nuova priorità, in un tripudio quotidiano di razzi e attacchi che difficilmente stuzzicano le cronache, sono divenute le milizie sciite filo-iraniane: come in Siria, d’altronde. Dove la guerra non è mai finita. Ma torniamo un attimo ai talebani. E all’11 settembre 2021, data che potrebbe rivelarci – almeno in parte – la vera strategia statunitense per l’area. Insomma, i barbuti sono il cavallo di Troia degli Stati Uniti per destabilizzare l’area o, al contrario, torneranno a essere il capro espiatorio – venti anni dopo, come nel sequel di un film dei Vanzina – che giustifichi mosse azzardate?
Tutto appare aperto. Di certo, c’è una sola cosa: il 28 luglio, una delegazione di nove capi talebani (fra cui uno dei co-fondatori del movimento, il mullah Abdul Ghani Baradar) è stata accolta con tutti gli onori a Tianjin dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, il quale ha sottolineato come «la Cina si aspetti di giocare un ruolo importante nel processo pacifico di riconciliazione e ricostruzione dell’Afghanistan». Tradotto dalla lingua diplomatica cinese, annegare di finanziamenti il Paese al fine di garantirsi una sfera di influenza assoluta. Non a caso, il messaggio del Dragone ai talebani è stato chiaro: «Non interferiremo direttamente in questioni interne». Ma, ovviamente, Pechino vigilerà. Attentamente. E che gli studenti coranici siano impegnati in un tour diplomatico di legittimazione internazionale ai massimi livelli lo conferma anche la visita segreta compiuta attorno al 10 di luglio da una delegazione di alti rappresentanti ad Ashgabat per incontrare funzionari di massimo livello del ministero degli Esteri del Turkmenistan, nazione che confina con l’Afghanistan e che teme un’offensiva talebana, tanto da aver minacciato di schierare l’esercito in modalità di intervento rapido.
In questo caso, la mediazione sarebbe stata compiuta direttamente da Mosca, interessata a uno sviluppo pacifico della situazione in un quadrante del mondo di importanza vitale, in primis per le fonti energetiche. Non a caso, la delegazione talebana era guidata dal capo dell’ufficio politico in Qatar, Sher Muhammad Abbas Stanikzai. E questa cartina mostra chiaramente l’importanza strategica del Turkmenistan per quanto riguarda il gas naturale, un qualcosa che dovrebbe interessare – e molto – direttamente proprio l’Europa.
Alcuni numeri parlano chiaro: il Turkmenistan può contare sulle quarte riserve di gas naturale al mondo, circa 19,5 trilioni di metri cubi e il 10% del totale globale. Soltanto il giacimento di Galkynysh può vantare una produzione di 2,8 trilioni di metri cubi, una delle maggiori in assoluto al mondo. Nemmeno a dirlo, la Cina ha da tempo messo gli occhi su quel tesoro energetico: solo nel 2019, le aziende del Dragone hanno importato qualcosa come 43 miliardi di metri cubi di gas dal Turkmenistan, l’80% dell’export di quell’anno. E gli analisti, nonostante i contratti siano segreti, sono certi che Ashgabat stia cercando una politica di diversificazione verso l’Europa, proprio a causa dell’alto indebitamento cui già oggi deve fare fronte nei confronti della Cina nell’ambito della Central Asia-China Gas pipeline (Cacg). Il tutto, poi, alla luce della recente conclusione del Southern Gas Corridor, progetto da 40 miliardi di dollari che consiste nell’intersezione delle due pipelines, Tanap e Tap, dall’Azerbaijan all’Europa del Sud. Di fatto la possibilità – per la prima volta da decenni – di un export diretto di gas naturale dall’Asia Centrale al Vecchio Continente. E una carta da giocare assolutamente bene per il Turkmenistan.
La Cina c’è. La Russia, pure. Il Qatar anche. Soprattutto, i talebani hanno sentito la necessità di rassicurare Ashgabat rispetto alle loro intenzioni di buon vicinato. L’Europa? Probabilmente, nemmeno sa dove di trovino quegli Stati dai nomi impronunciabili. Stante l’aria che tira, probabilmente qualche genio a Bruxelles comincia ad accarezzare l’ipotesi di importare Lng dagli Stati Uniti via container, tanto per tenersi buona l’Amministrazione Biden. Ma non basta. Perché il risiko energetico è più ampio. E contempla, appunto, anche il fronte iracheno, divenuto prioritario per gli Usa in chiave anti-iraniana dopo il disimpegno interessato dall’Afghanistan.
Il motivo? Lo mostrano queste altre due cartine, le quali esemplificano chiaramente la mossa del cavallo appena compiuta da Teheran: l’inaugurazione dell’hub per l’export petrolifero a Jask, officiata dal presidente uscente, Hassan Rouhani, in teleconferenza il 22 luglio scorso.
L’importanza del progetto, sbocco naturale per le esportazioni della pipeline Goreh-Jask, a sua volta un’infrastruttura da 2 miliardi di dollari di investimento? Offrire all’export di petrolio iraniano una via alternativa a quella dello stretto di Hormuz che gli statunitensi hanno più volte minacciato di bloccare, in ossequio alle sanzioni e al bando applicati come risposta al mancato accordo sul nucleare. E con i colloqui di Vienna in fase di totale stallo dopo l’elezione a nuovo presidente dell’oltranzista Ebrahim Raisi, ecco che una mossa simile appare una chiara provocazione di Teheran proprio verso gli Usa. E una palese prova di forza tramite il proxy più caldo dell’area posta in essere dalla Cina, attivissima anche sul fronte dell’Asia Centrale, dopo la campagna acquisti – a colpi di prestiti miliardari – compiuta nell’ultimo decennio in Africa e l’apertura della base militare strategica a Djibuti. Quelle prime 100 tonnellate di greggio partite il 22 luglio scorso da Jask, insomma, rappresentano un passo di enorme importanza per l’Iran, come confermato dallo stesso Presidente uscente: uno dei choke-point più strategici e controllabili al mondo è stato bypassato, l’Iran ha telegrafato al mercato globale la sua volontà di esportare petrolio. Con o senza la benedizione di Washington, potendo contare si quella di Pechino. E Mosca. La quale, di fatto, resta soggetto ancora poco vulnerabile al ritorno in grande stile del petrolio iraniano nel computo della produzione ufficiale di greggio, dopo anni di grey market noto a tutti, nonostante il divieto.
Il breakeven fiscale della Russia, infatti, permette ancora profittabilità sotto la quota dei 50 dollari al barile, mentre gli Stati del Golfo (Arabia Saudita in testa) hanno bisogno che il trend attuale di rialzo prosegua. E, possibilmente, cominci a flirtare con l’ipotesi di 100 dollari al barile, spinta dalla riapertura globale post-variante Delta. Un risiko enorme, appunto. Già in atto. Per questo, il ventennale dell’11 settembre sarà qualcosa più di una ricorrenza storica ed emotiva. Sarà la prova del fuoco, la cartina di tornasole di esiziali equilibri geopolitici in progress. L’Europa, nemmeno a dirlo, si accorgerà di tutto a cose fatte.
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