Ora abbiamo anche l’Edward Snowden 2.0. A gettare nel panico l’intelligence Usa sarebbe stato un imberbe 21enne della Guardia Nazionale, arrestato dall’Fbi e ora in attesa del pubblico ludibrio per alto tradimento. Credeteci, se volete. Ma rendetevi conto che bersi questa versione equivale ad ammettere che la principale potenza economica e militare al mondo è vulnerabile all’attività di un nerd. Fossi in voi, qualche domanda comincerei a pormela.
Missione compiuta. In realtà, l’America si è scaricata la coscienza e ha cominciato a scaricare quel fardello chiamato Kiev: ora tutti sanno cosa sta dietro le quinte del conflitto in Ucraina, la pantomima della difesa della democrazia mondiale dall’aggressione in stile nazista della Russia è consegnata agli editoriali de Il Foglio e a qualche docente universitario in realtà sempre meno attivo su social e canali tv. Ma, ovviamente, ora tutto si incentrerà sull’atto di viltà, sul colossale rischio per la sicurezza interna configurato da quei leaks e da quella serpe in seno. Ovviamente, bianco, amante delle armi, trumpiano e razzista. Probabilmente, ora servirà uno stanziamento extra per mettere in sicurezza i cittadini Usa. Magari in cybersecurity. Wall Street e complesso bellico-industriale ne saranno deliziati.
Fast forward ora, si vola oltre l’Atlantico e si arriva in Europa. Nel silenzio totale, gli unici due imputati per il Qatargate sono usciti di galera. E preparatevi, da qui a quando la polvere avrà coperto tutto, a un trafiletto in cronaca in cui si darà notizia dei colossali risarcimenti la giustizia belga dovrà elargire per durata e condizioni di quelle detenzioni degne del 41 bis. La famosa rete di lobbismo criminale in seno a Bruxelles, la piovra qatariota che tutto comprava e manovrava? Inesistente. Due fessi che si sono fatti beccare con le valigie piene di soldi. Tutta una colossale bolla di sapone. In compenso, si è sparso un bel po’ di fumo. Proprio nei momenti topici. Quelli che hanno portato al consolidamento delle cifre che vediamo cristallizzate in questo grafico.
Difficile tacciarle di propaganda filo-russa, stante la loro fonte: il ministero delle Finanze ucraino. Signore e signori, sessione dopo sessione, vertice dopo vertice, blitz dopo blitz e sfruttando appunto cortine fumogene come il Qatargate, l’Europa sta finanziando le casse statali di Kiev in maniera pressoché esiziale. Attraverso i prestiti Mfa (Macro-Financial Assistance), Bruxelles ha garantito il 20% delle necessità di cassa dell’Ucraina per l’anno in corso. E per chi pensasse ancora come sia stata l’America la grande alleata dell’Ucraina, ecco che il dato ci mostra come Washington si sia limitata a grants per circa 10 miliardi di dollari. Ovvero, quantomeno per prassi, donazioni. Ma in realtà, garanzie. Ovvero, la quasi certezza che a guerra finita Kiev continuerà comunque a rifornirsi di armi dagli Usa e non dall’Europa. Quest’ultima sistema i conti pubblici, nel frattempo.
In compenso, Washington con la sua operazione di lungo corso ha messo in ginocchio l’Europa a livello di politica energetica (stranamente, già annunciati nuovi rincari delle bollette per l’autunno: ma non eravamo affrancati e indipendenti dalla Russia?), ha scavato un fossato politico ed economico fra Bruxelles e Mosca e, soprattutto, innescato il turbo al proprio warfare attraverso la cessione di armamenti e pacchetti finalizzati in tal senso dal Congresso. Lockheed Martin e soci brindano. L’Europa paga il conto. Pronta cassa. Quattro volte abbondanti quanto messo a disposizione dal Fmi, di fatto il prestatore di ultima istanza globale, il creditore del mondo.
Il quale, d’altronde, il suo dovere lo ha già fatto ai tempi di Petro Poroshenko, quando spalancò i cordoni della borsa su ordine diretto di Washington. E senza chiedere troppe garanzie in fatto di anti-corruzione. Non a caso, appena venne sollevata l’obiezione al riguardo, a Kiev si scatenò la crisi. E saltò fuori dal cilindro il buon Volodymir Zelensky. Un po’ come Checco Zalone che dallo schermo passasse al Quirinale. Capito perché Emmanuel Macron ha detto basta e consumato l’enorme strappo durante la visita in Cina, di fatto pietra tombale della credibilità internazionale di una Ursula von der Leyen trattata come una portaborse indesiderata? Perché con il Paese in piazza contro la riforma delle pensioni, l’inflazione ancora alta, la stretta creditizia alle porte e la disoccupazione che morde, qualcuno potrebbe chiedere conto per quei miliardi a Kiev. Scordando le buone maniere.
E che l’aria stia cambiando, mentre qui i giornali si trastullano fra il divorzio Renzi-Calenda e l’orsa assassina, lo conferma questo altro grafico, un altro proxy decisamente poco ortodosso, ma enormemente rivelatore.
Quella che vedete è la comparazione dell’andamento fra i titoli azionari delle aziende che producono le due birre più famose, diffuse e bevute negli Stati Uniti: Bud Light e Molson Light. Praticamente, Peroni e Moretti. Ma con un giro d’affari spaventoso, non fosse altro per la guerra miliardaria e senza quartiere per accaparrarsi la fornitura negli stadi di football, basket, baseball e hockey. Cos’è accaduto dal 3 aprile in poi, cosa giustifica quella biforcazione costata alla Anheuser-Bausch 6 miliardi di capitalizzazione bruciata e alla concorrente Molson Coors 350 milioni di aumento del market cap solo la scorsa settimana? Il 2 aprile la produttrice della Bud Light ha annunciato un contratto di sponsorizzazione con la guru transgender Dylan Mulvaney, il cui volto è terminato anche sulle lattine da 50 cl insieme a uno slogan smaccatamente in tema Lgbt. Risultato? Un crollo delle vendite immediato, certificato da agenti e titolari di locali in tutto il Paese. New York e San Francisco escluse, of course.
L’aria sta cambiando, rapidamente. E in silenzio. Si può addirittura boicottare un prodotto perché troppo gender e dire la verità sull’Ucraina, talmente tanto la situazione sta precipitando in fretta. Emmanuel Macron, unico in Europa, lo ha capito. E sta agendo di conseguenza, alla faccia dell’Ue e dell’asse renano. Del Patto del Quirinale, nemmeno parlarne. Noi, invece, stiamo accelerando verso il precipizio. Tra l’inconsapevole e il servile.
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